Mercoledi’ 18 gennaio “Shame” e’ stato protagonista dell’uscita degli Amici del Cinema.
Come da buona abitudine apriamo lo spazio dedicato a tutti i commenti, critiche e spunti di discussione che vorrete lasciare sul film.
Dati Tecnici
Regia: Steve McQueen
Con: Michael Fassbender e Carey Mulligan.
Durata: 99 min
Trama del film
“Brandon, un trentenne che vive a New York, si è deciso a curare la sua divorante dipendenza sessuale. L’arrivo inaspettato della sorella più giovane e irrequieta, che si stabilisce nel suo appartamento, fa perdere a Brandon il controllo del proprio mondo, rischiando di mandare all’aria i suoi buoni propositi iniziali.”
Nell’imminenza del nuovo evento “Amicinema”, approfitto per dire la mia su questo “Shame”, che tanto aveva fatto discutere il gruppo al momento della sua uscita.
Premessa: il film tratta argomenti scabrosi e la recensione dunque non è adatta a pubblico minorenne!
Per chi non l’avesse ancora visto, trattasi di documentario anglosassone per appassionati di entomologia, che ci vuole “introdurre” nel mondo affascinante e misterioso dell’”apis mellifera” (nota ai più con il nome di “ape corina”, svelata al pubblico con dovizia di particolari in tutte le sue sfaccettature).
Ammetto che all’epoca non sono rimasto particolarmente impressionato: decisamente troppa introspezione, direi quasi “troppa trama” che ha inutilmente appesantito la confezione di questo simpatico prodotto “soft-pornogastrico” di celluloide.
Non fraintendetemi, per carità: si avverte spesso il tocco sapiente della mano del regista (non meno esperta e incallita di quella del protagonista), e ci sono sequenze decisamente di alto valore artistico:
mi viene in mente lo spot “Nike Running” girato in notturna, venti minuti di corsa ratta e folle per le viuzze della Grande Mela di grande impatto emotivo, che risponde ad un’esigenza di sceneggiatura: pare infatti che, nonostante la generosa dotazione di serie del protagonista, il film si potesse a malapena considerare un “cortometraggio”, perciò si è dovuto provvedere ad allungare con naturalezza un brodo altrimenti un po’ ristretto.
Come scordare poi la superba interpretazione narcolettica di “New York, New York” (sembra quasi uscita da un disco dei Melvins, dopo che si sono scolati un barile di Valium), con telecamera impietosamente puntata su porri e punti neri dell’attrice, che fa pensare ad un “rigurgito” di neo-realismo.
Notevole il significato simbolico della scena in cui il protagonista, interrogandosi forse sul significato della vita, espleta (opportunamente inquadrato di schiena) i suoi bisogni fisiologici, con contrasto artistico tra spirituale/materiale, sublime/meschino, pene/natiche che ricorre spesso nel film (forse a rappresentare metaforicamente il dualismo tra lo Ying e lo Yang ?)
Il film si pone inoltre domande universali che altri registi in precedenza hanno lasciato irrisolte:
- come impieghi il tempo delle pause sigaretta, se non sei un fumatore?
- cosa fai se sei sotto la doccia e ti accorgi di aver finito il bagnoschiuma?
- dove sbattere la testa (o parte di essa) se hai dimenticato a casa la cravatta e sei stato vittima di una “selezione all’ingresso”?
Detto questo, visto che la materia è indubbiamente più intrigante (i martiri dell’irredentismo nord-irlandese vs “sesso depresso ma va bene lo stesso, purchè lo si faccia spesso”), sono disponibilissimo a dare fiducia alla premiata coppia “McChicken/F@#ks-bended” e attendo con rinnovato ottimismo la visione di questa opera prima
Non condivido una parola di questa recensione ma mi sono divertita molto a leggerla. Chissà se riuscirai davvero a riservare la stessa ironia a Hunger…
Esagerata: sono convinto che almeno su “Imminenza”, “evento” e “Premessa”, potremmo anche arrivare ad un accordo!
Cominciamo con una definizione, la prima che ho trovato (Wikipedia), ma mi sembra condivisibile
La vergogna è l’emozione che accompagna l’auto-valutazione di un fallimento globale nel rispetto delle regole, scopi o modelli di condotta condivisi con gli altri; da una parte è una emozione negativa che coinvolge l’intero individuo rispetto alla propria inadeguatezza, dall’altra è il rendersi conto di aver fatto qualcosa per cui possiamo essere considerati dagli altri in maniera totalmente opposta da quello che avremmo desiderato. A differenza dell’imbarazzo, che si sperimenta esclusivamente in presenza degli altri, ci si può vergognare da soli e per lungo tempo; inoltre, mentre l’imbarazzo sorge per l’infrazione di regole sociali che possono anche non essere condivise, la vergogna è il segnale della rottura di regole di condotta alle quali personalmente si aderisce.
poi possiamo analizzare dove troviamo la vergogna nel film.
Qualcuno potrebbe vergognarsi se il suo capo gli trovasse l’hard disk pieno di materiale pronografico, e probabilmente si vergognerebbe se fosse scoperto dalla sorella/frattello a masturbarsi, ma Brandon resta del tutto indifferente nel primo caso e si arrabbia nel secondo. Potrebbe quindi significare che non si vergogna o più probabilmente che la vergogna è qualcosa di interiore.
Io penso che il film parli proprio di questa vergogna, di un sentimento assolutamente introspettivo, della sensazione di non essere come gli altri, di vivere in un proprio mondo pur volendo appartenere a quello che ti circonda. L’esteriorità che vediamo è solo la scelta registica per arrivare a quello che si voleva rappresentare.
Ieri ho avuto una interessante discussione sul titolo del film. Shame, ovvero vergogna. Mi interessa il vostro parere e lancio un thread: secondo voi a cosa si riferisce la vergogna del titolo?
Come avevo già scritto nel mio post la vergogna è nella difficoltà di vivere il sesso nell’ambito di un rapporto vero, coinvolgente. Non a caso la lunga scena di ricerca disperata e urgente di sesso, il suo volere toccare il fondo, avviene proprio dopo la presa di coscienza di non riuscire a vivere un rapporto coinvolgente! Non riesco a vedere una chiave di lettura alternativa, vergognarsi di una pulsione sessuale, seppur maniacale, sarebbe anacronistica se non avesse implicazioni psicologiche profonde.
La vergogna è un sentimento comune e radicato nelle dipendenze patologiche. il protagonista va in crisi quando comincia a “essere visto”: dalla sorella che lo vede in bagno masturbarsi e si accorge della situazione, dal capo che vede i siti sul suo computer..
“essere visto” significa anche uscire da quel guscio autistico della dipendenza e cominciare a “vederla”..
La vergogna a mio avviso è si, riferita ai comportamenti di Brandon che travalicano ampiamente il comune senso del pudore, in comportamenti ossessivo-maniacali che lo barricano in una torre di cristallo dalla quale osserva senza essere visto (almeno fino a quando nn arriva la sorella). Ma forse “vergogna” è anche quella, di chi tradisce la moglie con una appena conosciuta, di chi picchia qualcuno solo perché la fidanzata ci sarebbe stata, di chi infinitamente prova a togliersi la vita per paura di rimanere sola. Insomma SHAME è una denuncia di un malessere generalizzato di cui il protagonista nn è altro che una vittima… che attraverso la ricerca dell’esperienza (!) estremamente forte, emerge e reagisce….
Ho letto attentamente tutti i commenti…mi rammarico di essere stata forse superficiale nel primo impatto con questo film…ma sono molto istintiva e la prima sensazione che ho provato è stata la repulsione, il rifiuto verso un tipo di disprezzo della vita che mi ha fatto male. Non è un giudizio nei confronti delle persone che magari hanno vissuto dei momenti di difficoltà estrema per cui nn hanno saputo reagire altrimenti che con l’auto-distruzione ma solo un rifiuto della soluzione come se volessi allontanarla da me con forza.
Ho visto un abisso in questo film che spaventa ma anche la ferma convinzione che una strada diversa c’è per uscire. Ognuno di noi ogni giorno si trova in situazioni che nn soddisfano le nostre aspettative, che nn ci rendono felici, ma ad un certo punto “la vita” ci chiama e ci indica una strada costruttiva: per Brand è la collega e per Sissi è l’amore per il (e del) fratello (Brandon secondo me ama la sorella anche se è irruento, crudo, scostante e non perchè si commuove durante la canzone ma lo si evince quando cerca di scuoterla come nn riesce a fare con se stesso e nella folle corsa per salvare la Sissi c’è tutta trepidazione di chi nn vuole perdere una persona importante)….sta a noi trovare la forza per accettare il “richiamo”. La vita è fatta di scelte: di “vita” o di “morte”.
Se la qualità di un film si misura in emozini suscitate direi che SHAME ha fatto centro….
Approvo quanto scritto da Chiara per quanto riguarda l’indugiare su certe scene…non serve nell’economia della storia…un cortometraggio di 30 minuti avrebbe sortito lo stesso effetto.
L’inutilità di una persona sia pure apparentemente realizzata nel lavoro mi ricorda il protagonista di “Somewhere” . Anche lì il fragile equilibrio di una persona con un solo pensiero viene messo in crisi da una figura femminile diversa dai clichè sempre cercati una figlia non voluta o una sorella diversa ma molto più simile a lui di quanto sembri. Mi è piaciuto molto
La sorella è lo specchio, la sua dipendenza emotiva è quello da cui Brandon cerca di fuggire con il suo comportamento compulsivo. Non so se è lei che mette in crisi l’equilibrio. A me pare che Brandon fosse già in crisi. Anche prima dell’arrivo della sorella non sorride mai, non appare mai nemmeno soddisfatto dai suoi sfoghi sessuali.
Un film di grande impatto emotivo, ben recitato, ottima fotografia, cromatismi eccezionali, regia sapiente! Lo rivedrei sicuramente per rivisitare gli aspetti tecnici che le emozioni non mi hanno permesso di cogliere pienamente. La chiave di svolta del film è la consapevolezza del protagonista della sua condizione patologica mentre si accascia piangendo in una N Y poeticamente desolante. A proposito qualcuno ha riconosciuto il luogo? Ci sono delle lapidi credo scure inquadrate per qualche attimo che mi hanno molto incuriosito in quanto solo 1 mese fa ho visto una ottima fotografia ad una mostra che riprendeva lo stesso angolo della città. Grazie dei vs commenti. Stefania
Ho lasciato macerare questo film nel brodo del mio pensiero per una notte e il mio gradimento per “Shame” e’ aumentato ancora, trovando nuovi particolari e nuove riflessioni.
Posso dire che Steve McQueen e’ veramente un portento della regia (per genio aspettiamo il terzo film).
Come si puo’ dire altrimenti di un film nel quale si compie un lavoro di approfondimendo psicologico cosi’ notevole senza in pratica dialoghi che ci spieghino a parole i sentimenti dei personaggi ?
Oltre ad un indubbio talento, per ottenere questo risultato si e’ lavorato tantissimo a livello di regia e di interpretazioni dei personaggi (la sceneggiatura e’ un filo sottilmente labile).
“Shame” riesce a dipingere mirabilmente il mondo di aridità che permea la vita del personaggio principale, una persona schiava delle proprie pulsioni sessuali e che il film ci mostra nella sua progressiva caduta verso un inferno di autodistruzione, disprezzo e sensi di colpa.
Importante e’ che al mondo esterno nulla trapela: come puo’ essere altrimenti ? Brandon e’ bello, ricco, ha un bel lavoro, un’immagine al di sopra di ogni sospetto… tanto che neppure il capo crede che lui possa aver riempito il proprio hard disk di materiale pornografico.
Il tumulto interiore che c’e’ in Brandon e’ esplosivo e ha come unica via di fuga il rapporto sessuale, soprattutto se estremo e vergognoso, espressione rabbiosa e violenta dei propri disturbi.
Michael Fassbender e’ il complemento perfetto per le tematiche di McQueen e in questa opera e’ l’indispensabile fulcro espressivo per mostrarci la psicologia del personaggio… il suo corpo e sopratutto il suo volto sono il doloroso specchio della sua tormentata anima… e nella lunga scena finale dell’amplesso, nella quale si spezza finalmente qualcosa dentro di lui, lo avrei applaudito a scena aperta per l’emozione che e’ riuscito a trasmettermi.
La Coppa Volpi a Venezia per il miglior attore e’ meritatissima.
condivido pienamente soprattutto l’idea che sia un film da far sedimentare e che sedimentando rivela la profondità dei contenuti.
ma la vergonga non dovrebbe essere il sesso ma il non riuscire ad amare nessuno. Quando getta tutte le riviste, portatile compreso, andando a scovarle nei posti dove le nasconde sebbene viva da solo, anche gli alcoolisti nascondono a loro stessi le bottiglie in giro per casa, sta cercando di liberarsi da una dipendenza. Peccato che quel modo di vivere la sessualità, meccanico-macchinico-prestazionale, più che una dipendenza sia conseguenza di un voler tener a distanza la possibilità di perdere il controllo di sé e della propria vita e del voler impedire che gli altri, con le loro idee e le loro emozioni, interagiscano con essa.
Da un lato ho compreso l’intento del film al tempo stesso l’ho trovato un po’ “moralista”, le scene di sesso sono abbastanza superflue ed eccessivamente patinate rispetto a quello che dovrebbero significare. Fatto sta che alla fine mi è venuta voglia di rivedere Shortbus che preferisco anche se è sicuramente inferiore a Shame sul piano filmico.
Sono d’accordo sul fatto che l’ipersessualità di Brandon ricordi le compulsioni del disturbo ossessivo-compulsivo, e che sia probabilmente un modo per “mantenere il controllo” della propria vita, ma non capisco che cosa ci sia di “moralista” in questo film (non c’è giudizio sui due personaggi), e soprattutto non ho mai trovato superflue le scene di sesso, ma anzi essenziali per comprendere il protagonista. Shortbus è piaciuto molto anche a me, ma lì invece c’era una ricerca compiaciuta, a tratti divertente, dell’estremo, quasi a voler scandalizzare a tutti i costi gli spettatori (e infatti un sacco di gente, almeno quando l’ho visto io, si è alzata e se ne è andata). Questo non l’ho visto affatto in SHAME, film al centro del quale resta il dramma umano dei protagonisti, e le “scene di sesso” (se proprio così vogliamo chiamarle, ma mi pare di banalizzarle) non sono mai gratuite. Qualitativamente, dal mio punto di vista, SHAME è molto al di sopra di Shurtbus, ma soprattutto mi sembra proprio un altro genere di film.
@Marta: davvero la gente è uscita dalla sala con shortbus!?:-O
L’ho trovato moralista per un ambiguo indugiare nell’associare al sesso il concetto di vergogna. Scrivo ambiguo indugiare perché McQueen non è così limitato da restringere la questione all’equazione sesso-vergogna però ce la mette dentro e su questo non mi vede molto d’accordo. Su che base associare la vergogna al sesso? perché è promiscuo? perché non è collegato ad una relazione sentimentale? Siam sicuri che il capo di Brandon che in ogni occasione cerca di portarsi a letto una fanciulla non si debba “vergognare”? Se arrivi a doverti masturbare in ufficio, dedicar ogni attimo libero a guardare filmati pornografici o svolgere attività in funzione del fare sesso la tua condizione è più una patologia che una vergogna. In questo senso associare “vergogna” a queste problematiche mi sembra un po’ riduttivo e moralista.
Il sesso nel film è superfluo, non gratuito. In Intimacy era necessaria una visibilità perché tutto il film si giocava sulla diversa reazione dei due protagonisti all’intimità che inevitabilmente si crea quando si ha una relazione, anche solo sessuale, con qualcuno. Per quanto racconta Shame, invece, ho trovato la sequenza iniziale del risveglio ripetuta quasi in loop, quasi perché ogni volta ci sono delle piccole differenze, che si conclude con l’inquadratura di Brandon che fa pipì, molto più esaustiva di qualsiasi “sesso mostrato”: la freddezza emotiva dello svegliarsi soli nello stesso letto in cui poche ore prima si è fatto sesso con qualcuno, l’ostinato ignorare l’affettuosa richiesta di attenzione proveniente dalla segreteria telefonica, la nudità un po’ sciatta più che rilassata che riempie l’immagine. Invece Brandon che spiacicchia la fanciulla conosciuta in un bar su un muro di un parcheggio è in più, era sufficiente il suo salire nella di lei automobile. Mi si verrà mica a dire che far sesso in strada, sull’onda dell’entusiasmo del momento, è cosa di cui vergonarsi, vero?:-D
Quanto scrive Annafranca l’ho trovato in diversi momenti del film, eccetto che nelle sequenze di sesso esplicito, come nella sequenza in metropolitana, con la ragazza dal solitario al dito che si contorce sotto lo sguardo di Brandon per poi scegliere di fuggire da lui e dal suo stesso desiderio. Ragazza che nel finale ricompare più consapevole di sé, tanto da proporsi apertamente ad un Brandon forse cambiato (finale aperto, già il secondo finale aperto in meno di un mese).
@Chiara. Io non penso che la parola SHAME sia da associare al sesso, o al modo in cui Brandon lo vive (nel qual caso la troverei moralista anch’io). Penso che sia qualcosa di più profondo, un non-detto, qualcosa di legato al passato che ha determinato la chiusura di Brandon alle emozioni, e la sua conseguente compulsione sessuale. Non mi pare che Brandon si vergogni della sua vita sessuale (la nasconde più per convenienza che per vergogna, ma si espone continuamente al rischio di essere “scoperto”), credo piuttosto che si vergogni per il suo blocco interiore, per la sua incapacità di vivere liberamente le emozioni, per la sua “solitudine dell’anima” (come dice Cristina), per qualcosa (un “danno”) che non sappiamo, e credo che mcqueen non ce lo spieghi per permettere a chi prova quel tipo di malessere (o ci è passato e quindi è in grado di riconoscerlo) di identificarsi meglio col protagonista. Il comportamento ipersessuato di Brandon, cioè, mi sembra più la conseguenza che la causa di questa “vergogna”.
Se il termine “moralista” sta ad indicare una certa misura in cui rientrano le scene di sesso in Shame, concordo, ma non userei il termine moralista ma “essenziale”: probabilmente si è voluto evitare il rischio voyeristico per privilegiare la ragione intrinseca di quel sesso, ossia lo stato psicologico, la freddezza di un rapporto esclusivamente fine a se stesso, quasi senza erotismo ma con un evidente sottofondo di dolore.
E’ esattamente quanto ho scritto nel primo commento in risposta a Stefano, che la vergogna dovrebbe essere per il non riuscire ad amare nessuno e non per il sesso. Su cosa sia scatenante questa vergogna ho trovato McQueen ambiguo, dopo tutto i momenti in cui Brandon perde di più il controllo, anche se in misura diversa, sono i due più collegati al sesso: quando gli portano via il computer senza avvisarlo e quando la sorella lo sorprende a masturbarsi in bagno e la reazione è così violenta perché lui conosce le sue abitudini mentre la sorella, prima di incappare anche nel portatile con la webcam, è solo divertita per aver sorpreso il fratello in un momento di intimità (dopo tutto era in bagno, a casa sua, a porta chiusa). In secondo luogo si vergogna perché non riesce ad amare, perché la tesi su cui tutti siamo d’accordo, e ci sentiamo forti, è che si debba amare il prossimo. Forse De Sade mi avrà rovinato , ma su questo punto non sono così assolutamente certa che chi non è capace di provare dei sentimenti per qualcun altro si debba vergonare per questo (o non possa far altro che vergognarsi per questo). Ci sono molti modi di rapportarsi alle persone, alcuni più prossimi ai nostrii, altri lontanissimi. Dopo tutto Brandon, dedito a sesso mercenario scevro di implicazioni emotive, è più onesto e, per il suo prossimo, assai meno portatore di danni emotivi del suo capo. Ho trovato troppo dirigista l’impostazione di McQueen, un po’ troppo giudicante e, per assurdo, molto meno comprensiva ni confronti dei personaggi che racconta di quanto potrebbe sembrare. Per me Brandon e Sissi sono delle vittime, di loro stessi prima di tutto, e se c’è una cosa da cui qualsiasi vittima dovrebbe essere liberata è proprio l’eventuale senso di vergogna; invece il finale rimane aperto, non si sa se Brandon ne uscirà o meno, non c’è nessun spiraglio.
Tu dici che McQueen è un artista e di solito un artista fa andare un po’ oltre le cose, fa andare oltre la mera identificazione che può scattare tra noi il personaggio, cerca di arrivare a quella dimensione epica, se vuoi,che difficilmente noi si raggiunge nella vita di tutti i giorni ma che si ricerca visto che andiamo a vedere film, mostre, opere teatrali, leggiamo romanzi e poesie. Ecco io, questo salto “epico”, in Shame non l’ho trovato. Alla fine McQueen pare dire che è giusto che Brandon, povera creatura, si vergogni; beh per me non lo è.
@Chiara: C’è una cosa su cui proprio non m ritrovo nella tua analisi: Mc Queen a me non sembra dire che è giusto che Brandon si vergogni né mi sembra ambiguo su questo. Leggi per esempio il commento di Cristina: per lei il film è stato un “pugno nello stomaco” perché evidentemente ha visto in Brandon persone che conosce, e che forse ora capisce un po’ meglio, forse perché ne comprende meglio il “senso di vergogna”. Tu dici: non è giusto che Brandon si vergogni (e io sono assolutamente d’accordo), ma il punto è che lui, e tante persone come lui, hanno un vissuto di “vergogna” (non necessariamente legato al sesso) perché si sentono diversi dagli altri, e per questo si comportano in un modo che a noi sfugge e che magari ci infastidisce o ci allontana. Questo vuole rappresentare mcQueen e, secondo me, lo fa molto bene.
non saprei, faccio fatica a non vedere una tesi, il pistolotto sulla famiglia che gli fa la sorella dove lo metti, antitetico a quello di Marlon Brando in Utlimo tango a Parigi? La famiglia è quella che uno si sceglie, non quella che gli impone l’anagrafe.
C’è diversa letteratura che ragiona su come parte dell’atomizzazione della società attuale sia legata al fatto che ci si vergonga meno in quanto la vergogna era uno strumento di controllo sociale nei termini di moderazione dei comportamenti individuali: provando vergogna l’individuo faceva sì di non deludere la società, comunità, di appartenenza. Demolendo l’idea di società si è intaccato, per certi versi, anche il concetto di vergogna e i comportamenti individuali si sono “liberati” (e questo riguarda qualsiasi indivuduo, non casi con trascorsi che si intuisono problematici come quello del protagonista del film). La mia opinione è che per ripristinare una società degna di questo nome non si debba ritornare alla coercizione della vergogna bensì auspicare al raggiungimento di una maggior consapevolezza di sé nel rapporto con l’altro. Per questo ho trovato tutto l’apparato messo in scena da McQueen “vecchio”.
Anche a me è piaciuto molto, soprattutto nei suoi elementi tecnico-artistici: sceneggiatura, fotografia, interpretazione, colonna sonora, dialoghi… un film dal taglio molto netto, intenso e non banale, in nessun elemento casuale. Nell’immediato ho avuto un’unica perplessità riguardo al significato della trama, una sensazione di non averne forse colto appieno l’intenzione, ma poi – come giustamente ha detto qualcuno di noi – non è detto che questo significato ci debba necessariamente essere… Sullo splendido sfondo di una New York viva di luci e movimento ma desolante a livello relazionale, è passato un forte messaggio di disperata solitudine, di abbrutimento psichico (lodevole come il protagonista dall’aspetto affascinante riesce in alcuni momenti a perdere ogni appeal facendo emergere espressioni da vero malato mentale), di una vita adulta che paga le conseguenze di un passato oscuro e doloroso, e forse – alla fine, dopo aver toccato il fondo – di un possibile riscatto…
Per me il film di McQueen è stato un lungo, lunghissimo pugno nello stomaco. Che mi ha messo faccia a faccia con una realtà che spesso, troppo spesso, ci rifiutiamo di vedere e di riconoscere, bollando come pazzi o diversi persone che hanno solo bisogno di essere accolti. Due persone, come dice giustamente “Edwige” che hanno subito un danno, ma che non per questo hanno meno diritto degli altri di essere amate. Il disagio al maschile di Brandon si specchia in quello al femmminile della sorella. Brandon fugge le emozioni perchè lo fanno sentire legato e impotente, la sorella invece ci si butta a pesce, senza controllo, alla ricerca di un contatto umano anche scadente. La stessa incapacità emotiva in un gioco di specchi sottolineato dalle inquadrature di McQueen. Mi è piaciuto moltissimo il rigore del racconto al presente, senza flashback, senza le solite spiegazioni legate all’infanzia difficile o alla mancanza d’affetto dei genitori. E nessuna concessione allo spettatore, costretto a vivere fino in fondo la durezza della solitudine dell’anima dei protagonisti e la loro discesa agli inferi.
Forse la colpa, se mai può essere definita tale, non riside solamante in chi non accetta queste persone ma soprattuttolo fanno….lo facciamo da sole. Alle volte non sentiamo di meritare di essere amate. Altre volte, semplicemente non riusciamo a rendercene conto nemmeno quando accade.
a me il film è piaciuto molto. mi pare che, anche grazie alle sue inquadrature sempre ristrettissime, aiuti a cogliere quanto noi, nonostante un mondo così “globale” dove tutto accade ed è condiviso immediatamente da tutti, in realtà la nostra vita sia sempre “piccola”, limitata, potenzialmente fatta di solitudine. il protagonista vive una pulsione positiva, creativa nel vero senso della parola, in modo autodistruttivo e mi pare veramente che venga resa bene la cosa nelle scene finali, quelle di quell’orgasmo con il viso così deformato da sembrare dolore.
BELLO MA VUOTO… Classico film da Hollywood e dintorni. Brandon, personaggio straordinariamente negativo con questa sua compulsiva dipendenza dal sesso visto come un atto esclusivamente fisico con l’assoluta inutilità del partner, visto solo come necessario per compiere l’atto. Nessun pensiero al di fuori dal sesso e dal lavoro, nessun rapporto umano al di fuori dal sesso e dal lavoro. se una donna lo costringe a parlare lui fallisce miseramente se la sorella (anche lei con forti disagi) si avvicina chiedendo un po’ d’amore fraterno lui l’allontana malamente. Vive esclusivamente alla ricerca di sesso facile e superficiale, evidenzio che non ha difficoltà a trovare partner per incontri occasionali né a pagamento né gratuiti.. Un uomo che non ha interessi, non ha amicizie, non ha famiglia. Vive non conoscendo gli altri si potrebbe dire che il suo scopo è quello di dover chiudere un buco o altrimenti di poter riempiere una sacca di sperma.
Triste ma reale certo l’incomunicabilità da Antonioni è andata molto più in avanti questa società fatta di persone che si incontrano ma non si conoscono, si vedono ma non si guardano, si parlano ma non si capiscono..
ma Steve McQueen è stato a Milano, per trarre ispirazione?
Questa forte divergenza di opinioni conferma, secondo me, il fatto che SHAME, più che un film, è un’opera d’arte. E come avviene per un’opera d’arte, può toccare profondamente le sensibilità di alcuni e lasciare totalmente indifferenti altri. Steve Mc Queen non è un regista, e si vede: non c’è una narrazione compiuta (non sappiamo che cosa ha determinato il “danno” dei due protagonisti, né sappiamo se ne usciranno o meno) e tante scene possono sembrare inutilmente lunghe. Steve Mc Queen è invece un artista, ovvero una persona dalla sensibilità speciale, e questa cerca di esprimere nelle sue opere, in modo tutt’altro che tradizionale (pensate per esempio alle inquadrature: quasi mai il protagonista è al centro). Deve certo aver fatto un grosso lavoro con i due protagonisti, entrambi bravissimi a trasmettere un malessere irrisolto e forse irrisolvibile di origine antica, che cercano di contenere nella loro pseudovita indossando varie maschere all’occasione (che qualcuno può interpretare come freddezza o superficialità). Ma quelli di noi che sono (o sono stati in qualche momento della loro vita) un po’ Brandon e un po’ Sissi non possono fare a meno di avvertirlo, a volte in maniera empatica, a volte disturbante, a volte perfino drammatica (Oreste, bellissimo il tuo commento!). Simbolica per il vissuto dei protagonisti la scena in cui Sissi canta New York New York (che “tocca” Brandon). Tutti noi abbiamo in mente la versione energica e vitale di Liza Minelli. Invece, quando canta “I wanna wake up, in that city that doesn’t sleep, to find I’m king of the hill, head of the list…” Sissi si guarda intorno spaesata, quasi distratta, e profondamente triste.
sulle lacrime di brandon ho un dubbio: potrebbero essere di commozione per Sissi ma potrebbero esser dovute anche al rendersi conto di non riuscire sentire qualcosa (commiserazione di sè)
io la penso come Chiara
Secondo me Brandon si rispecchia nella sorella, vede in lei la sua stessa incapacità di vivere (seppure espressa poeticamente, con quell’interpretazione surreale, stridente della canzone). Quindi sì, è autocommiserazione
Solo i sorrisi di Cristina, sono riusciti un po’ a placare quel vuoto in cui mi sono sentito precipitare, nuovamente. Pensavo di aver superato certi ricordi ma eccoli di nuovo li, come un branco di lupi. Ho passeggiato, solo. Lo stomaco mi faceva male. Ho ordinato un caffè da McDonald e la voce quasi non mi usciva. Non m’intendo di cinema. Non conosco gli attori ma per certo so che quel vaso di pandora che tengo sempre chiuso ieri si è aperto. Si è aperto per colpa o grazie a questo film e dei commenti relativi. Alcuni che si chiedevano se mai esistono persone così. Altri che mi hanno chiesto, con sorrisetti, se questo film mi fosse piaciuto perché a loro, forse, sembrava esagerato. Questi sono i pensieri che creano quella solitudine, in persone come me. Non poter davvero raccontarsi perché altrimenti saresti come un alieno. Avrei voluto rimanere lontano dl film ma non ci sono riuscito. Ed il dolore che alle volte ti auto infliggi serve solo per farti sentire vivo. Adesso, il vaso, sono riuscito a chiuderlo. Mi è rimasta solo quella sensazione di vergogna per aver scritto il modo in cui, in parte, ho vissuto.
E’ un film meticoloso e da manuale nelle scelte registiche e nella costruzione sia dei personaggi, i due fratelli ying e yang, che dell’intreccio. Non c’è una sbavatura, un’approssimazione, un errore: le diverse tessere del mosaico umano Brandon, e delle persone che gli gravitano attorno, coprono tutto lo spettro delle caratteristiche della condizione umana descritta, ivi compreso il comparire di scritte sullo sfondo che incitano all’essere powerful e altri aggettivi dello stesso tenore che possono solo indurre all’incapacità emotiva che caratterizza il personaggio principale. Se avesse fatto un corto, se fosse riuscito a rinunciare a delle cose che, per quanto giustificate e ben inserite nel racconto, sono superflue e ridondanti, sarebbe stato perfetto. Invece dura un’ora e mezzo (che a me è parsa ancor più lunga) passata a chiedermi ok, la bionda quando si uccide?
Pur con i diversi limiti del film, mi hanno colpito alcuni aspetti della regia. Le inquadrature in primo piano ravvicinato, a volte anche tagliate, come se riprendesse direttamente i sentimenti e le sensazione degli attori, sembrava di essere dentro la scena (soprattutto io che stavo in seconda fila…); la scelta delle inquadrature e la mescolanza di riprese, con immagini che avevano a volte un tocco di arte plastica; il dialogo muto fatto di espressioni fra i protagonisti (la maggior parte delle parole penso le abbia dette il capufficio un po’ il superficiale, e anche la sorella, ma le sorelle, si sa, in genere parlano più dei fratelli…). La cosa più interessante e bella mi è sembrata la relazione con la sorella, in particolare due scene. Quella della sorella che canta, ripresa in primo piano ravvicinato con il viso anche tagliato di sopra, con macchina da presa immobile, in alternanza con le immagini del fratello commosso. La scena è lunga ma non annoia, con una successione incredibile di delicate espressioni e toni della ragazza che canta, mi chiedo quante volte deve aver provato la scena per riuscire a inanellare tante sensazioni in modo così pulito e sobrio ma efficace. Poi la scena dei due fratelli ripresi di schiena, in un dialogo teso e serrato e anche duro ma che rivelava tanto amore e un forte e profondo legame.
L’opera prima della coppia Steve McQueen e Michael Fassbender Hunger aveva vinto la camera d’or a Cannes e noi con il canocchiale l’abbiamo vista…..al tentativo numero due ecco arrivare Shame e una meritatissima Coppa Volpi a Venezia.
Uscito con lo scomodo appellativo di film-scandalo Shame vede protagonista Brandon un manager di successo che vive la sua vita reprimendo i suoi sentimenti e vivendo i suoi rapporti in maniera algida puntando tutto sul sesso vissuto in maniera ossessiva con rapporti occasionali consumati per strada o con professioniste del settore a domicilio, masturbandosi in doccia oppure a lavoro, non disdegnando il virtuale con visite in chat e siti ultra hard o sensuali giochi di sguardi in metropolitana.
Questa perfetta vita asettica viene sconvolta dall’arrivo della sorella Sissi e del suo bagaglio di problemi personali che lo intrappolano e lo costringono a tirar fuori qualcosa d’umano.
Se nei titoli di coda non si vedesse la firma di Steve McQueen anche nella sceneggiatura si poteva pensare benissimo a un racconto di Brett Easton Ellis talmente è bravo nel rappresentare questa New York con le sue mille luci.
Shame è un film sull’aridità dei sentimenti e su quanto questi, paradossalmente, ti possono rendere impotenti.
Fassbender è bravissimo a rappresentare questa impotenza che sia essa simbolica come nella scena in cui lui assiste silenzioso e immobile la sorella flirtare con il suo capo (e trovare come unico sfogo una corsa notturna nelle vie di New York) oppure reale con l’unica donna a cui concede un secondo appuntamento.
Questa ricerca di se stesso costringe il protagonista a una discesa negli inferi e ritorno che ricorda vagamente quella di Tom Cruise in Eyes Wide Shut.
Se Micheal Fassbender è da premio non da meno è in bravura Carey Mulligan che da An Education passando da Drive azzecca sempre il proprio ruolo….da lacrime la sua versione di New York New York…..
Tornando al film Shame è un film che dividerà lo spettatore, non lascia indifferenti. Chi lo odierà ne odierà questa simbiosi con il personaggio, odierà questa puzza sotto il naso tipica da cineasta newyorkese (anche se McQueen è inglese)….chi lo amerà ne amerà il fascino che il personaggio sprigiona il tutto il film a cui è difficile non rimanere sedotti….vedere l’ultimo fotogramma per capire cosa dico.
Voto 7,5 (urca sono rimasto sedotto)
Mi dispiace. Il film mi è piaciuto moltissimo, ma Fassender/Brandon non mi ha sedotto. Anzi. Talmente freddo, da apparire quasi brutto. E decisamente tutt’altro che erotico.
A me il film non è piaciuto sostanzialmente perchè l’ho trovato inutilmente lungo e noioso.
E’ un film vuoto, come la vita del protagonista, e questa sensazione Fassbender la rende molto bene, però è la sola che, a mio avviso, riesce a trasmettere. Non colgo nessun approfondimento psicologico, nè dei personaggi nè dei rapporti tra di loro, nessun chiaroscuro, non c’è traccia dell’anima dell’uomo e delle sue contraddizioni, non ho sentito nè sofferenza nè colpa nè vergogna, e non lo ritengo credibile. Non ritengo credibile la figura di quest’uomo perchè manca di complessità, complessità che è comunque insita in chiunque, a prescindere dalle proprie ossessioni e traumi.
Trovo banale il clichè dell’uomo bello e ricco, che tutto può avere ma che non riesce ad amare. La sua discesa agli inferi ha una sorta di freddezza chirurgica che in parte apprezzo, ma non per due ore. Fassbender è bravo ma monoespressivo, non ho colto nessuna intensità interiore.
Molto bella la fotografia, complice una New York affascinanate come sempre.
E comunque alla base delle mie critiche rimane sempre la bella frase di Voltaire: “non condivido ciò che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo” . La differenza di opinioni è una richezza e non una guerra.
se rifiuti l’emotività se cancelli la possibilità di avere qualsiasi tipo di rapporto, in fondo è come se cerchi di semplificare la vita al bianco e nero. E’ in questa semplificazione che si trova la complessità del personaggio che per me non solo è credibile, ma in alcuni aspetti addirittura condiviso.
E aggiungerei: il racconto di McQueen è tutto per immagini. La profondità la si legge negli sguardi, nelle lacrime, nelle risposte arrabbiate, nell’impotenza. Nulla viene spiegato a parole. Ed è proprio questo che mi è piaciuto del film e che lo rende unico.
Anche io concordo con Cristina. Togliamo ogni orpello di spiegazione, qui si richiede allo spettatore una immersione del dolore, nella rabbia e nell’impotenza di dominare le proprie pulsioni. E’ una sensazione difficile da approciare, ma se ci si riesce allora il film ti entra nel cuore.
D’accordo, forse questo film non l’ho capito … sarà che la mia fatica di vivere, e il grande dolore che questo mi provoca, si esprime in modo molto diverso … sarà che sono in un momento di ricostruzione … sarà ……
Shame ti prende e ti immerge nel mondo doloroso e cupo di Brandon. La sua vergogna non è nel sesso a tutti i costi ma nella difficoltà di amare, di lasciarsi andare, è quella di avere nel sesso solo la temporenea risoluzione della sua angoscia, sempre più forte fino alla ricerca disperata del fondo. La sua trattenuta potente sensibilità è tirata fuori dalla sorella, suo alter ego, che lui allontana perché lo coinvolge finché comprende in lei dove si può arrivare. Il finale è perfetto, al momento perfetto. Lo sguardo è più cupo ma anche più dolce, o lo si vede così e il dopo è superfluo. Grande Fassbender a rendere pienamente l’inquietudine di Brandon. Brava la Mullighan a saper svelare il suo dolore e il suo bisogno di affetto nella superficialità apparente. Eccezionale McQueen e le sue riprese ravvicinate che entrano nei dettagli espressivi degli attori.
Un film che ti tiene lontano fin dalla prima scena, che ti impone le distanze, che non ti permette di trovare una sintonia, come non l’hanno i personaggi con il mondo. Duro, coerente a tratti dirompente e non per le scene di sesso ma per la crudezza dei personaggi, per il deserto emotivo che impersonifica Fassbender.
Una regia impeccabile ed un’iterpretazione di valore assoluto, in cui un personaggio veramente eccessivo è reso assolutamente credibile.
le persone che sono sopravvissute a esperienze terribili meritano una vita normale e qualcuno che le ami? Qualcuno ricorderà forse il libro di Josephine Hart “il danno”, portato su grande schermo nel 92 dal Louis Malle con una giovane Juliette Binoche. Lo stesso tema viene riproposto anche da McQueen in Shame.La paura di amare, di essere amati, di essere intrappolati, di essere feriti e di ferire coloro che potremmo amare e da cui potremmo essere amati. La follia, la solitudine e il dolore di un anima troppo fragile, messa a nudo, non solo metaforicamente, dal regista e incarnata da uno splendido Fassbender.
«Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere… È la sopravvivenza che le rende tali… perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro » (il danno – Josephine Hart)
Secondo me Shame e’ un buon film, un po’ pesante ed a tratti lento, ma almeno tratta un argomento nuovo uscendo dai soliti schemi, buona regia e ottimo Fassbender, alcune scene sono pesanti ma nn in modo gratuito, bensi’ sono funzionali alla storia e a quello che vuole esprimere. La solitudine e lo strazio di un uomo prigioniero di una ossessione, schiavo della sua liberta’ sessuale, che lo porta a fare sesso ovunque ed in ogni modo, ma lo rende incapace di farlo con la collega, l’unica donna per la quale sembra provare un sentimento.
Fassbender fa sesso ovunque ed in ogni modo, ma e’ triste e ha una vita vuota, una casa fredda, un rapporto malato con la sorella. IL regista e’ bravo a mostrare come la ninfomania, cosi’ come le altre dipendenze, portano all’autodistruzione. Bella la scena finale di lui che piange sotto la pioggia, solo e disperato.
Ciao a tutti, notte!
L’autolesionismo è una richiesta di aiuto,il dolore riesce a comunicare solo con altro dolore alimentandosi a vicenda in un circuito chiuso che può interrompersi soltanto in seguito ad un evento molto traumatico.l’amore x il proprio sangue in questo caso aveva un ruolo di specchio asimmetrico,2fratelli a confronto che chiedono aiuto l’uno all’altra,usando l’unico codice in comune,l’aggressività sessuale!mi è piaciuto molto in particolare l’ultima scena,quella della tavoletta del bagno pulita prima dell’atto della masturbazione e quella dell’incontro con la sorella sotto la doccia,bello e significativo il gioco di specchi!francesca