Mercoledi’ 1 febbraio “The iron lady” e’ stato protagonista dell’uscita degli Amici del Cinema.
Come da buona abitudine apriamo lo spazio dedicato a tutti i commenti, critiche e spunti di discussione che vorrete lasciare sul film.
Dati Tecnici
Regia: Phyllida Lloyd
Con: Meryl Streep, Jim Broadbent e Anthony Head.
Durata: 105 min
Trama del film
“Margaret Thatcher, ex Primo Ministro britannico, ormai ottantenne, fa colazione nella sua casa in Chester Square, a Londra. Malgrado suo marito Denis sia morto da diversi anni, la decisione di sgombrare finalmente il suo guardaroba risveglia in lei un’enorme ondata di ricordi. Al punto che, proprio mentre si accinge a dare inizio alla sua giornata, Denis le appare, vero come quando era in vita: leale, amorevole e dispettoso. Il giorno dopo, Carol convince sua madre a farsi vedere da un dottore. Margaret sostiene di stare benissimo e non rivela al medico che i vividi ricordi dei momenti salienti della sua vita stanno invadendo le sue giornate nelle ore di veglia.”
A me invece il film (Streep a parte) e’ piaciuto veramente poco.
Una regia molto convenzionale che riesce ad affossare una sceneggiatura che si sofferma giustamente sugli aspetti piu’ umani del personaggi, lasciando (molto) sullo sfondo la parte politica.
Molte scelte di Phyllida Lloyd sono veramente banali, cito ad esempio il parallelo della cena iniziale nel presente e nel passato, il dettaglio delle scarpe della Thatcher e delle sue odiose amiche di gioventu’ oppure la scena della guerra delle Falkland nella quale il ricordo viene scatenato dalla sua caduta in casa su una statua con due soldati.
Anche l’utilizzo dei flashback fatti in questo modo mi sono sembrati un cliche e non sempre dettati da una idea forte di film (vedi ad esempio Fincher che in “The social network” fa un lavoro splendido da questo punto di vista).
Mi e’ piaciuto invece molto il personaggio della Thatcher, una donna forte e fragile allo stesso tempo, una persona con una visione (giusta o sbagliata che sia, è lasciato al giudizio di ognuno di noi). E questo e’ quello che distingue i grandi personaggi.
Non so pronunciarmi su quanto sarebbe meritato o meno l’Oscar alla Streep, perchè la visione del film mi ha in più punti “infastidita”. Premetto che, anche per deformazione professionale, non abbandono mai una lettura in ottica di genere (maschile/femminile) dei film che vedo.
La Thatcher è stata un personaggio politico davvero attaccabile o osannabile da tanti punti di vista ma questa visione sulla donna e sulla vecchiaia l’ho trovata umiliante proprio per la statura morale della persona.
La scelta, che in generale trovo apprezzabile, di fondare il film sull’essere umano e non sul personaggio ormai storico – che è piaciuta a Cristina – è andata a scadere (o cadere) su alcuni stereotipi di genere.
Ho faticato a credere che un film così avesse una regista-donna.
Ad un certo punto fa intendere che il suo governo sia caduto perchè lei si comportava da “signora maestra” con i suoi compagni di partito, ma sappiamo che la politica è ben altro e il momento del ricambio era arrivato.
La dipinge incapace di superare la solitudine dopo la morte del marito, come a sottolineare forzatamente che alla fine per una donna la cosa più importante rimane l’uomo, non importa se sia una casalinga che non ha vissuto altro nella vita o una donna che ha cambiato la storia del suo paese.
La tazzina che lei lava nell’ultima scena – apparentemente segno di ritrovata serenità – tuona da un altro punto di vista come una condanna biologica.
La volontà forte, mantenuta malgrado la malattia, non basta a salvarla da questi attacchi.
Sul primo punto: il film mostra che il potere logora e dopo un po’ rende dispotici. E’ accaduto alla Thatcher, ma è accaduto anche a Blair, per non parlare dei nostri leader nostrani. Semplicemente il sistema democratico inglese prevede meccanismi legati al partito che consentono di far fuori il despota.
Sul secondo punto, la lotta per liberarsi del fantasma del marito io l’ho vista più come una sua strenua lotta contro la malattia. Perchè è consapevole che si tratta di allucinazioni. Non mi sembra che mai il film faccia intendere che per lei il marito è più importante della politica. Anzi, tra i suoi ricordi, mischia quelli politici a quelli personali.
L’ultima scena non è ritrovata serenità. Sembra piuttosto sottolineare che la libertà di questa donna che ha deciso i destini del mondo, a causa della malattia e del modo in cui viene curata, oggi consiste nel poter lavare una tazzina da sola.
L’ultima scena mi è sembrata come un ripensare al ruolo di madre, l’accettare la sua nella speranza che i suoi figli possano un giorno accettare lei.
Non sapevo davvero cosa aspettarmi da questo film, se non la performance di Meryl Streep, ormai quasi scontata nella sua bravura. E invece mi è piaciuto molto anche il film. L’impostazione è simile a quella di J. Edgar di Clint Eastwood. Entrambi sono incentrati sull’essere umano piuttosto che sul personaggio politico. Entrambi sono raccontati direttamente dai protagonisti, attraverso i ricordi, necessariamente parziali, necssariamente filtrati da ciò che per loro è stato importante. Entrambi i film possono così permettersi di non essere oggettivi o documentaristici riguardo agli avvenimenti politici che diventano invece lo sfondo dell’avventura umana che il film racconta. E l’umanità di Margareth è innanzitutto quella di una donna in un mondo di uomini che ne sottovaluta il valore (è figlia di un droghiere), la risolutezza, la capacità di decidere. Bellissima a questo proposito la scena al primo ingresso in Parlamento nel 1959, che inquadra un solo paio di scarpe femminili in mezzo ad un mare di scarpe nere, da uomo, tutte uguali. Altrettanto significativa – almeno per me nata prima degli anni ’70 – la frase con cui prima di accettare il matrimonio, Margareth mette in guardia il futuro marito sui suoi valori e le sue ambizioni di donna. Nel bene e nel male, l’influenza di Margareth Thatcher la stiamo vivendo ancora oggi: sue sono le idee liberiste diventate oggi pensiero unico mondiale, suo è il merito, grazie alla guerra delle Falklands, di aver indebolito e poi fatto crollare il regime fascista argentino, infine suo è il merito di aver riconosciuto per prima il valore di Gorbaciov per la fine della guerra fredda. E il film questi temi li tocca tutti.
Troppo facile parlare dell’interpretazione, soprattutto senza averlo visto in lingua originale, partiamo quindi dalla sceneggiatura. E’ interessante che il racconto di una donna universalmente riconosciuta come una donna forte e rigida, parta dalle sue debolezze, che il racconto di una donna che ha deciso le sorti del mondo, parta dal momento in cui non può nemmeno decidere di uscire di casa.
La scelta di raccontare la sua storia attraverso i suoi ricordi, ricordi di una malata di Alzheimer, permette di mantenere la narrazione leggera, mai troppo autobiografica, ma sempre molto personale, una soluzione che permette di sospendere il giudizio politico e soffermarsi sugli aspetti più umani. Mi sembra un risultato riuscito.
Mi resta un ultima domanda, quanto è casuale che due tra le tre persone che hanno maggiormente influenzato gli anni ottanta (lei Reagan e Gorbaciov) si siano malate di Alzheimer e di quanto statisticamente questo sia improbabile, ma non impossibile. Mi viene in mente un frase celebre di Woody Allen “Dio è morto, Marx è morto ed anche io non mi sento tanto bene”
Concordo. Il contrasto tra la perdita della volontà (e quindi della libertà) nel momento della malattia, e la volontà inespugnabile di quando era primo primo ministro è forse la caratteristica più originale del film.
Ammetto che io non ce l’ho fatta a vederlo doppiato. E devo dire che non mi sono pentita: vi dico solo che nei primi cinque minuti ero convinta che fossero immagini di repertorio, ci ho messo un po’ a capire che quella signora dimessa con l’alzheimer che andava a fare la spesa era invece la Streep. Che dire? Per me la sua bravura è sempre più impressionante. Non solo le espressioni, ma anche la voce cambia nei vari momenti della storia: squillante da giovane, mascolinizzata e calcata su alcune parole quando è primo ministro (l’ho confrontata con quella originale della Tatcher: è uguale), dimessa e lenta quando è più anziana. Non so quanto queste sue capacità sorprendenti siano rese nel doppiaggio. E comunque per me l’Oscar è suo.
Quanto al film, l’ho trovato migliore di quanto mi aspettassi: concordo anch’io con Omer che l’ambivalenza tra le due fasi della vita, quella in cui decide le sorti del mondo e quella disorientata della malattia, funziona e coinvolge. Certo, del tatcherismo si capisce poco, ma la scelta di concentrarsi sugli aspetti più intimi (e “drammatici”) del personaggio, a scapito della sua biografia, tutto sommato la condivido.