Katherine Bigelow è è una regista e sceneggiatrice statunitense, nata in California nel 1951. Dopo gli studi d’arte si trasferisce a New York e nel 1978 gira il suo primo film, il cortometraggio Set-Up, accolto con interesse dai festival statunitensi ed europei. L’anno successivo si laurea alla “Columbia’s Film School” e diventa membro del gruppo culturale inglese di avanguardia Art and Language. Questa premessa evidenzia che non siamo di fronte ad una classica creatura del sistema degli studios hollywoodiani. Anche se il suo maggior successo commerciale, è sicuramente “Point Break”, un film che ha la struttura del classico film d’azione hollywoodiano, con inseguimenti, rapine in banca e alta tensione emotiva. Il sottotesto filosofico però è tutt’altro che scontato e ricorda quello del film di cui vogliamo parlare.
The Hurt Locker viene realizzato nel 2008, e presentato al Festival del Cinema di Venezia a settembre di quell’anno. Accolto con grande favore dalla critica mondiale esce negli Stati Uniti solo nella primavera del 2009, dopo passaggi in numererosi Festival, e si aggiudica nell’edizione 2010 degli Academy Awards ben 6 premi Oscar nelle categorie migliore regia, miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro, miglior montaggio. Katherine Bigelow diventa la prima donna a vincere un Oscar per la regia nella storia degli Academy Awards. Ed è interessante che quell’anno concorreva alla stessa statuetta l’ex marito James Cameron con il blockbuster Avatar.
Hurt Locker è a tutti gli effetti un film di guerra. Il titolo letteralmente significa “l’armadietto del ferito” ed è il gergo con cui viene indicata la scatola contenente gli effetti personali dei soldati feriti o morti in guerra che viene inviata alle famiglie d’origine.
E’ la storia di un gruppo di sminatori che lavorano in Iraq, durante la guerra. La scelta della Bigelow nel raccontare la storia è estrema e completamente coerente: tutto il film è una soggettiva del personaggio principale il comandante della squadra Bill. Ciò che lo spettatore vede e capisce dell’Iraq, del suo popolo, del pericolo, di ciò che accade, è solo ciò che Bill vede, capisce, combatte. Non c’è una intelligenza esterna che ci aiuti a separare i buoni dai cattivi, i nemici dagli amici. Non ci sono ideali, non c’è mito, non c’è eroismo perchè non c’è speranza o desiderio di una fine. C’è piuttosto, da parte del protagonista Bill, un attaccamento indiscriminato per il proprio lavoro, la guerra, per il pericolo, per l’adrenalina. Solo questo è importante per Bill. A discapito di tutto ciò che siamo soliti chiamare vita: l’amore, la paternità, l’amicizia, la spensieratezza .
Una visione molto femminile, credo, dell’essenza di ciò che scrittori, miti, film, tutti rigorosamente al maschile, ci hanno insegnato a chiamare eroi.
Film molto bello. Questi soldati apparentemente freddi, invincibili, sprezzanti del pericolo, si scoprono fragili.
In alcuni momenti di solitudine si lasciano andare al pianto, sono votati alla morte, tornano a casa dalle missioni, ma si sentono perduti.
Nel film “La seconda notte di nozze”(la storia era ambientata alla fine della seconda guerra mondiale), lo sminatore era il più tonto del villaggio, così se doveva morire qualcuno, in quelle operazioni rischiose, almeno era quello meno fortunato. Nel film “The hurt locker”, gli sminatori sono persone consapevoli del loro ruolo, forse con un pò di follia nel gestire le attività di bonifica, senza guardare le regole di sicurezza. Questo lavoro
è perfetto per loro, mentre sono incapaci a gestire gli affetti familiari.