C’è un confuso brusio di parole, proprio come in un set cinematografico prima del ciak, e macchie di colori e profumi.
Dove ci troviamo? Ecco, il brusio si placa rapidamente come un’onda che ritorna in mare, i colori si stemperano in una sola tinta indefinibile: silenzio, inizia il film…
Ma il vero film sappiamo bene che è fatto da ognuno di noi. Provate a voltarvi durante una proiezione e “guardare il film” sui volti stupiti, frementi, addolorati degli spettatori, anzi delle persone: mille sceneggiature in un unico film.
Ognuno di noi trova parte di se stesso nel personaggio o nella musica o nella storia. In qualche modo è ciò che siamo stati o che avremmo voluto essere almeno in un momento della nostra vita, che volevamo dire, fare… baciare.
In questa chiave, nessun film può essere considerato un brutto film, perché una pellicola vive attraverso le emozioni che una persona muove individualmente. Un film è molto più di una bella trama, un bravo attore, ottima fotografia, musica azzeccata; un film è quello che sei, che vorresti o non vorresti mai, e ridi e piangi proprio per questo.
E’ così che chiediamo ai nostri lettori di esprimere una preferenza sui tre migliori film della propria vita, con questa voglia di raccontarsi e raccontarcelo, perché quella sua emozione diventi anche nostra.
Ringraziamo come sempre Claudio Lupi autore anche dell’introduzione che leggete sopra e oggi vi presentiamo le emozioni e i film di Francesco Rizzo !!!
Broadway Danny Rose, di Woody Allen
Sono un marxista, nel senso dei fratelli Marx. Per me i comici e i commedianti sono santi laici che vendicano lo spettatore, vittima dell’assurdità della vita, oppure si immolano per lui. Tutti, da Totò a Buster Keaton, da Tati a Franco&Ciccio.
Certo, Allen appartiene al club dei più grandi (beh, ultimamente meno) e questo film, la storia di un agente di artisti di serie C che viene tradito da l’unico asso della sua scuderia, un cantante italoamericano con panza, moglie e amante, è una delizia assoluta.
Per l’intreccio di ironia e amarezza, per il senso dell’umorismo come unica salvezza in un mondo da cui sarebbe più sano fuggire, a patto di sapere dove.
E’ la parabola di un perdente e i perdenti sono molto più affascinanti dei vincenti: “Chi vince festeggia, chi perde spiega”, diceva Julio Velasco, maestro di pallavolo, tango e vita. E a me piace chi spiega.
Ma poi, in questo film, c’è tanto del mondo di Allen: la dipendenza da New York (come in Manhattan), maghi e veggenti (come in Edipo relitto), la musica di un’altra epoca (come in Radio days), l’arte da palcoscenico – anche la più modesta – quale alternativa sognante alla vita quotidiana (come in Ombre e nebbia).
E infine Dio, si capisce. Dialogo alla tavola calda: “Tutti siamo in colpa agli occhi di Dio”. “Tu ci credi, in Dio?”. “No, ma mi ci sento in colpa”.
Il sorpasso, di Dino Risi
Anni ’80, una sera qualunque in una casa qualunque di Milano. La tv accesa. “E ora trasmettiamo Il sorpasso, di Dino Risi. Il film è consigliato a un pubblico adulto”. La madre, davanti alla tv, si volta verso il figlio adolescente. “Tu sei adulto?”. “Penso di sì”. “Allora puoi restare”.
Come si sbagliavano, entrambi.
Ma tant’è, Il sorpasso l’ho scoperto così e poi l’ho visto tante di quelle volte che, se guardate bene, ci sono pure io in un paio di scene. In generale è il cinema che amo: dialoghi graffianti, attori che sono attori e non corpi, una regia nascosta ma personale (la scena del tizio che mangia in salotto: però il salotto è l’interno di un camion…), un finale che non considera lo spettatore un moccioso da consolare.
Film-simbolo della commedia all’italiana, l’epoca che preferisco nella storia del nostro cinema, la cui cattiveria – compiaciuta quanto vi pare – è oggiAggiungi un appuntamento per oggi merce rara.
Ma c’è altro. Mi sono sempre identificato in Roberto, il personaggio di Trintignant che, chilometro dopo chilometro, sottoposto alle lezioni di vita dell’immorale, inaffidabile, sempre attuale Bruno Cortona, comincia a vedere il proprio passato sotto un altro punto di vista. Comincia, cioè, a sorpassare se stesso, come capita a tutti, di continuo, negli anni. Ti volti, e sorridi di chi eri. O te ne vergogni. “Vai, cavallina!”.
Effetto notte, di Francois Truffaut
Quale definizione del cinema, nell’intera storia del cinema, appare più folgorante di quella contenuta qui? “I film vanno avanti come i treni, capisci? Come i treni nella notte…“.
Se ci pensate, una pellicola è un succedersi di finestrelle – i fotogrammi, intendo – che, fatti scorrere sulla luce del proiettore, sembrano i finestrini illuminati di un treno che taglia le tenebre. Le tenebre della sala cinematografica, la caverna dei sogni dove il cinema è nato e dove finirà per morire, visto che siamo circondati da gente eccitatissima perché può vedere, che ne so, Titanic sullo smartphone. Che è un po’ come fare l’amore vestiti. Però mi piace anche l’idea che il film sia un viaggio dentro la notte, ovvero dentro le nostre emozioni e i nostri pensieri più nascosti.
Per esempio quelli che mi inducevano, nel scegliere il terzo titolo della vita, a scrivere L’uomo che amava le donne, sempre di Truffaut.
Comunque: Effetto notte è la celebrazione del piacere, della fatica e della necessità di fare cinema, come atto creativo e fisico, e dell’intreccio tra la finzione e la realtà, tra il set e gli uomini e le donne che lo animano.
Lo raccontano tanti altri, lo so. Ma nessuno, secondo me, trasmette il gusto del “fare cinema per fare cinema” come Truffaut.
Anche perché, “i film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi, nei film, non ci sono rallentamenti”. Come i treni nella notte, appunto.
Grande Francesco!!!!