I migliori film della nostra vita (con Francesca Felicini)

C’è un confuso brusio di parole, proprio come in un set cinematografico prima del ciak, e macchie di colori e profumi.
Dove ci troviamo? Ecco, il brusio si placa rapidamente come un’onda che ritorna in mare, i colori si stemperano in una sola tinta indefinibile: silenzio, inizia il film…
Ma il vero film sappiamo bene che è fatto da ognuno di noi. Provate a voltarvi durante una proiezione e “guardare il film” sui volti stupiti, frementi, addolorati degli spettatori, anzi delle persone: mille sceneggiature in un unico film.
Ognuno di noi trova parte di se stesso nel personaggio o nella musica o nella storia. In qualche modo è ciò che siamo stati o che avremmo voluto essere almeno in un momento della nostra vita, che volevamo dire, fare… baciare.
In questa chiave, nessun film può essere considerato un brutto film, perché una pellicola vive attraverso le emozioni che una persona muove individualmente. Un film è molto più di una bella trama, un bravo attore, ottima fotografia, musica azzeccata; un film è quello che sei, che vorresti o non vorresti mai, e ridi e piangi proprio per questo.

E’ così che chiediamo ai nostri lettori di esprimere una preferenza sui tre migliori film della propria vita, con questa voglia di raccontarsi e raccontarcelo, perché quella sua emozione diventi anche nostra.

Ringraziamo come sempre Claudio Lupi autore anche dell’introduzione che leggete sopra e oggi vi presentiamo le emozioni e i film di Francesca Felicini !!!

 

Momenti di gloria, di Hugh Hudson 

Ovvero, come innamorarsi del cinema a 9 anni. O meglio, come capire a 9 anni quanta emozione  il cinema può regalare. Il film è del 1981, e in quell’anno vinse l’Oscar come miglior film, sceneggiatura originale, colonna sonora e costumi.  In quell’anno io ero una promettente ala desta nella squadra di minibasket dell’oratorio, e mi allenavo duramente per migliorare le mie prestazioni in campo. Io e le mie compagne eravamo animate da un forte spirito di squadra e di agonismo… e le vicende narrate dal film sembravano fatte apposta per tradurre e sublimare le mie emozioni e i miei sforzi! Diventando più grandicella, ho cominciato a capire il “perché” di una sceneggiatura e di una regia a dir poco perfetta, e che non rientrano per nulla nei cliché dei classici film ambientati nel mondo dello sport.
La vicenda in breve – per chi del film si ricorda solo l’immortale colonna sonora di Vangelis – ruota intorno alle Olimpiadi del 1924, a Parigi, dove arrivano a partecipare Eric e Harold, i due protagonisti, ispirati a personaggi reali. Sono ambedue inglesi ma profondamente diversi, di indole e formazione: Eric Liddell è un cattolico, di famiglia benestante, ed è convinto che correre sia uno dei modi a lui concessi per rendere onore a Dio; Harold Abrahams è invece ebreo, e cerca nello sport (e nella vittoria) il modo per sconfiggere i pregiudizi sociali. Il film ci racconta le vicende del progressivo avvicinamento di entrambi al successo: non solo e non tanto gli allenamenti, quanto le motivazioni interiori e i dubbi esistenziali. Intorno a loro, si muovono i compagni di squadra e di università, gli allenatori, le famiglie, le fidanzate, i professori di università e i manager: il regista riesce a fornirci un quadro d’insieme della società dell’epoca al di là delle vicende puramente sportive, e ci regala un’Inghilterra degli anni ’20 per nulla di maniera. E si riflette sul valore dello sport, anche e soprattutto come metafora  esistenziale.
E’ stato il primo film che ho acquistato in videocassetta, il primo in dvd, e ancora adesso ogni volta che rivedo la scena di Eric che rovescia indietro la testa sul filo del traguardo dei 200 metri, con quel sapiente uso del ralenti e della musica…mi commuovo. Dimenticavo: la mia anglofilia è nata anche lì, e una delle foto a cui tengo di più della mia vita è quella che mi ritrae adolescente trionfante nel cortile del Caius college di Cambridge, che nel film è lo scenario della prima sfida di Harold.

 

 

 

A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder 

Un capolavoro, IL capolavoro tra i capolavori di Billy Wilder, che definire commedia rosa è a dir poco riduttivo. Dato che credo e spero tutti l’abbiano visto almeno una volta, non posso che suggerire caldamente di vederlo in lingua originale, anche se il doppiaggio italiano non fa perdere quasi nulla alle straordinarie interpretazioni di Jack Lemmon, Tony Curtis e Marilyn Monroe.
Siamo a Chicago, nel 1929, in pieno Proibizionismo. Joe e Jerry, sax e contrabbasso, fanno parte di un’orchestrina che suona per i clienti di una sala nascosta in un’agenzia di pompe funebri. Il proibizionismo impera e i gangster escogitano tutti gli stratagemmi per poter spacciare l’alcol. I due sfuggono a una retata ma, in cerca di una scrittura, si ritrovano ad essere testimoni del massacro della notte di San Valentino. Costretti a fuggire perché scoperti come testimoni dalla gang del temibile Ghette, ai due non resta altro che travestirsi da donne per far parte di una band femminile che sta partendo per esibirsi in Florida. Da quel momento saranno Dafne e Josephine, e conosceranno Sugar Kane, che nella band suona l’ukulele, e che mette alla prova la tenuta della loro identità segreta…Da qui prende le mosse una straordinaria commedia degli equivoci, piena di colpi di scena e irresistibili gag, mentre le due novelle donne cercano di sfuggire i gangster e mantenere la loro femminilità non riuscendo a dimenticare di essere uomini…fino alla battuta finale, “Nobody’s perfect”, che resta una delle più celebri della storia del cinema.
C’è anche da considerare che nel 1959 trattare il tema del travestimento e quello dell’omosessualità latente (Jerry che scopre di essersi divertito a ballare come Dafne con un suo ricco corteggiatore) non deve essere stato facile. Uno dei primi film che mio padre mi ha portato a vedere al cinema, il primo che ho registrato con il mio videoregistratore pagato un milione di vecchie lire, uno di quei film che il solo ripercorrere a memoria mi fa ridere da sola…

 

 

La grande illusione, di Jean Renoir

Un capolavoro non solo del cinema francese ma di quello di tutti i tempi, e a mio parere il migliore, oltre che il più noto, di Renoir.
Siamo nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale. Due aviatori francesi – il tenente Maréchal (Jean Gabin), di estrazione proletaria, e l’aristocratico capitano de Boëldieu – vengono portati prima in un campo di concentramento tedesco e poi in una fortezza comandata dal capitano von Rauffenstein (uno straordinario Erich von Stroheim), responsabile della loro cattura. Dopo un periodo di detenzione, de Boëldieu si sacrificherà per favorire l’evasione di Maréchal e del suo collega Rosenthal, un ricco ebreo prigioniero come loro. I due riusciranno a fuggire in Svizzera dove inizieranno una nuova vita.
Il film assume la sua valenza soprattutto se si pensa all’anno in cui fu girato, il 1937. Nella sceneggiatura che deve la sua perfezione anche al fatto che è tripartita – prima, siamo con decine di prigionieri nel campo di concentramento, poi nel clima claustrofobico della fortezza, poi ancora nell’idillio della campagna svizzera -  emergono tra gli altri il messaggio pacifista, il tema delle differenze di classi sociali (prima che la seconda guerra mondiale le spazzasse via per ricostruirne di nuove), e il tema delle conseguenze delle guerre sulle personalità degli uomini.
E’ stato credo il primo film che ho visto in lingua originale (nella versione completa del 1958 curata dallo stesso Renoir), allo spazio Oberdan, in una sera d’estate di troppi anni fa, e che ha segnato un’altra tappa della mia storia d’amore per il cinema.

 


 

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