Questo luglio nei cinema milanesi sono arrivate sei autentiche perle del cinema del passato.
Sei opere tra le più importanti di Yasujiro Ozu, probabilmente il regista più ammirato del Giappone sicuramente in patria, ma anche in tutto il mondo (meno in Italia dove i suoi film sono tutti inediti).
Oltreché da un pubblico di fan che ancor oggi, a oltre 50 anni dalla morte, portano in pellegrinaggio sulla sua tomba bottiglie di whisky e di vino (era nota l’inclinazione del maestro per l’alcol, che gli diede problemi fin da ragazzo).
Restaurati e digitalizzati dalla Shochiku di Tokyo, la casa che produsse la maggior parte delle opere di Ozu, i film sono distribuiti in Italia dalla friulana Tucker e uno di questi (“Il gusto del sakè”) e’ la nostra proposta di fine stagione.
I titoli, che appartengono alla produzione più matura del regista e datano tra il 1949 e il ‘62, vertono sul tema prediletto da Yasujiro Ozu: la famiglia, con i suoi sentimenti e i suoi riti ma anche con i sintomi del disfacimento dell’istituzione nel “mondo nuovo” che si delineò dopo la fine della guerra.
In questo articolo (che parte da un bel pezzo su Repubblica) vi raccontiamo la vita e le opere di Ozu sperando di farvi conoscere un regista al quale il cinema deve molto.
Nato nel benessere della media borghesia di Tokyo, pessimo studente fin da ragazzino, Ozu e’ innamorato del cinema di Hollywoord di allora.
Lilian Gish, Rex Ingram, la spericolata Pearl White (pare che sul banco di scuola tenesse una foto della venerata star del muto e pioniera dei primi serials come “The Perils of Pauline” e “I misteri di New York”).
Sincero amico del sakè fin da giovanotto (a fine lavorazione di Viaggio a Tokyo, annota sul diario: “Finito! 103 giorni, 43 bottiglie di sakè”), carattere, si dice, burbero e anche più, Ozu, che non si sposerà mai passando tutta la vita con la madre, nel ’23 arriva con le sue belle speranze agli studios della già solida Shochiku.
Facendo la sua brava gavetta: assistente operatore, ideatore di gag e quindi assistente alla regia.
Nella quale esordisce nel ’27, è anche la sua prima sceneggiatura, con “La spada della penitenza”, suo unico film storico e primo dei suoi 35 muti, 19 solo fra il ’27 e il ‘30.
Ritmi elevati che, insieme alla qualità dei film, alla versatilità rispetto ai generi d al maniacale perfezionismo, gli procurano, per quanto ancora influenzati dall’amore per Hollywood, una stima sempre più alta: è ormai avviato sulla strada che lo porterà, con Mizoguchi e Kurosawa, nel gotha del cinema giapponese.
Dal ’31 al ’37 un film di Ozu è ogni anno nell’eletta decina della critica giapponese.
È in questa fase che mette a fuoco il tema che gli sarà caro fino alla morte: i drammi delle persone normali, con, di lì a poco, una specialissima attenzione alla famiglia che dopo la guerra diverrà esclusiva. Perché è concentrandosi su quel nucleo base della società, dalla quale progressivamente lo isolerà, che il maestro cerca le sue storie, narrando della ordinary people sentimenti e comportamenti in rapporto al tempo che scorre e tutto trasforma. Senza che noi si possa opporre altro che serena, consapevole accettazione.
Dai due anni sotto le armi per la guerra in Cina, Ozu riporta altra materia legata alla famiglia (“Fratelli e sorelle della famiglia Toda”, 1941), per la sua compassionevole, rigorosissima rappresentazione del mondo.
Nella quale sempre più distilla un ascetico, minimale linguaggio cinematografico, imperniato, fra le tante idee della sua rivendicata autonomia, sul proverbiale “tatami shot”, la macchina sempre fissa, frontale e ad altezza di una seduta su un materasso tatami che teatralizza il racconto, e sul “pillow shot”, le scene di raccordo in cui stacca da una scena su una vuota, come per dar tempo di assimilare le emozioni appena vissute; le auree geometrie e l’implacabile cura d’ogni dettaglio con cui compone ogni inquadratura; la violazione del campo e controcampo, fatta riprendendo i due interlocutori frontalmente e non più di lato alla linea che li separa; l’estesa, soffice, calligrafica scala del b/n e, dopo l’avvento del colore, l’inedito uso del rosso, che attraverso vere e proprie macchie in forma di oggetti e dettagli impiegava quasi fosse una sigla.
Centrali anche il montaggio che lega le scene passando dall’elemento centrale di una a quello della successiva, col primo, come un filo, sempre presente ma in posizione a sua volta subalterna, il tutto a fuoco e lo sguardo in macchina dell’attore.
D’altronde, Ozu, sul finir dei ’50, così commentò il trionfo del Cinemascope: “Non voglio averci nulla a che fare e, di conseguenza, faccio ancor più primi piani e piani ravvicinati”.
I suoi film erano fatti di storie di famiglie che si separano e cambiano, di genitori, figli e dei loro affetti che invecchiano fino a riformularsi nella speranza d’una armonia. Come quella, altrettanto impossibile da raggiungere, fra tradizione e novità. Grande fu la sua attenzione per tutti, vecchi, giovani e bambini. E come pochi seppe comprendere e filmare le buone ragioni di tutti. “Ho cercato di rappresentare – disse – il collasso della famiglia giapponese mostrando i nostri bambini che crescono”.
Così come non aveva voluto usare il sonoro fino al ’35, solo nel ’58, a cinque anni dalla morte, con Fiori d’equinozio, Ozu si decide a impiegare il colore. Farà in tempo a girane altri cinque. Proseguendo sulla traccia dei drammi di quel decennio, sovente stemperati da una certa severità precedente in commedie comunque agrodolci, spesso teneramente ironiche, intessute di perdite più o meno volute, di infrazioni alle antiche regole imposte dalla modernità.
Oltre a Viaggio a Tokyo, l’amaro, ineluttabile appassire dei sentimenti fra anziani, devoti genitori che vivono in un paesino e la giovane prole troppo affaccendata nella capitale per occuparsi di loro in visita, famosi sono altri quattro film a colori dell’ultimissima stagione del maestro: Fiori d’equinozio, un padre che si oppone a che la figlia scelga il marito per venir sconfitto dalla repubblica delle donne di famiglia, Tardo autunno, intrighi amorosi con matrimonio per anziani fra nostalgia e sorrisi, Buon giorno, dissacrante, allegra commedia-scontro familiare sul boom degli elettrodomestici, l’elegiaco Il gusto del sakè e’ l’addio di Ozu, di nuovo alle prese con i già citati anziani amici, la figlia di uno di loro e il matrimonio che ella non vuol fare per star dietro a padre e fratello, altrimenti incapaci di cavarsela nella vita quotidiana.
Ozu Yasujiro muore a Tokyo il 12 dicembre 1963, giorno del suo sessantesimo compleanno. Una circolarità perfetta. Sulla tomba ha voluto scritto solo “mu”, che vale nullità, niente. In contrasto con la grandezza nella storia del cinema.