Michael Dudok de Wit e’ il regista olandese che ha realizzato “La tartaruga rossa” l’ultimo film dello Studio Ghibli che troverete nelle sale milanesi per solo tre giorni (27, 28 e 29 marzo) e che vi abbiamo raccontato in questo articolo.
Dudok de Wit seppur praticamente sconosciuto nel nostro paese e’ un artista molto famoso in tutto il mondo e oggi vi vogliamo raccontare la sua vita e le sue opere con le immagini dei suoi cortometraggi e una bella intervista che ha rilasciato proprio prima dell’uscita di questo film.
Nato nel 1953 a Abcoude vicino a Utrecht, Michael Dudok de Wit per le sue esperienze di studio e di lavoro ha girato mezza Europa: Ginevra, West Surrey, Barcelona, Londra. Nel 1994 ecco la sua prima opera di successo, “The Monk and the Fish” (“Le Moine et le Poisson”), nomination all’Oscar e Cesar per il miglior cortometraggio d’animazione.
Meglio ancora nel 2000 con “Father and Daughter” (“Père et Fille”), il suo corto piu’ famoso che vince l’Oscar, il BAFTA e il Grand Prix di Annecy.
Da citare infine “The Aroma of Tea” altro cortometraggio che ha la peculiarità di essere disegnato interamente con il te.
Tutte le sue opere hanno il marchio di fabbrica di uno stile di disegno fatto di pennellate decise e l’uso di inchiostri e acquarelli decisamenti ispirati all’arte cinese e giapponese.
“La tartaruga rossa” e’ il suo primo lungometraggio di animazione e allora lasciamo spazio alle sue interessanti parole !!
Tra i tuoi cortometraggi di animazione, almeno due sono diventati di «culto». Nel 1996, “The Monk and the Fish”, realizzato nello studio Folimage di Valenza, ha ricevuto un Cesar e una candidatura all’Oscar. Poi e’ stato il turno di “Father and Daughter” che, nel 2001, è stato accolto da una valanga di premi importanti (Annecy, Hiroshima etc.) e da un Oscar. Una bambina vede scomparire suo padre e il ricordo del genitore l’accompagnerà per tutta la vita. In questo tema esprimi un sentimento difficile da definire: lo «struggimento»…
Sì, è un sentimento difficile da definire perché è sottile, ma penso che siano in molti a conoscerlo. È un’aspirazione verso qualcosa che sembra inaccessibile, un grande desiderio silenzioso e profondo. Per un artista, può significare un desiderio di perfezione, di un ideale nella musica, nel disegno, nella poesia…
È una mancanza dolorosa eppure molto bella. Non puoi immaginare quante testimonianze molto toccanti io abbia ricevuto da parte di amici e anche di sconosciuti. Dicevano che il film parla loro di eventi che hanno essi stessi vissuto. Ho avuto una fortuna enorme, è diventato un classico.
Nel 2004, hai fatto parte della giuria al Festival di Hiroshima. È in quella occasione che hai conosciuto Isao Takahata ?
In effetti, abbiamo avuto un breve scambio, mi ha persino rivolto qualche parola in francese. Adora la cultura francese. E poco tempo dopo, mentre ero al Festival di Seul dove tenevo una conferenza sui miei lavori davanti a un pubblico di studenti, ho avuto la sorpresa di vederlo arrivare con un traduttore. Pensavo che fosse venuto solo a salutarmi e invece no, ha assistito a tutta la conferenza! Forse pensava già a una collaborazione professionale?
Poi, nel novembre 2006, inaspettatamente ricevi una mail da Tokyo.
Con due domande. Nella prima, il museo Ghibli mi chiedeva se acconsentivo che distribuissero in Giappone “Father and Daughter”. Nella seconda, se ero interessato a lavorare con il loro studio ad un lungometraggio di mia ideazione… Fino a quel momento non avevo mai davvero pensato al lungometraggio. Alcuni miei amici, ai quali erano state fatte promesse meravigliose, erano partiti per la California ed erano tornati delusi dopo aver visto i loro progetti rimaneggiati dai produttori.
Ma con lo Studio Ghibli è diverso. Mi hanno precisato che avremmo lavorato sotto la legislazione francese, dunque nel rispetto del diritto d’autore. Mi hanno concesso diversi mesi per scrivere la sceneggiatura. Coltivavo il seme del tema di un uomo su un’isola deserta, tema che nel frattempo era diventato onnipresente in televisione, ma era un concetto archetipico che continuava a piacermi. Però non volevo raccontare come un naufrago riesce a sopravvivere, aspetto già trattato decine di volte. Avevo bisogno di qualcosa di più. Per questo motivo ho soggiornato su una piccola isola dell’arcipelago delle Seychelles, nome sinonimo di vacanze di lusso, facendo una scelta più semplice, alloggiando per dieci giorni a casa di un abitante del posto.
Andavo a passeggio da solo, mi guardavo in giro e scattavo migliaia di foto. Volevo assolutamente evitare il look «brochure villaggio vacanze». Il mio naufrago non deve innamorarsi del posto, vuole a tutti i costi tornare a casa sua, perché l’isola non è poi tanto accogliente, presenta dei pericoli, impone una condizione di solitudine estrema, piove, ci sono gli insetti…
Ho fatto il classico errore: la mia sceneggiatura era troppo dettagliata e il film sarebbe stato troppo lungo. Ma la base della storia era buona. Nella fase successiva, quella dell’animatic, ovvero la versione molto semplificata del film disegnato con immagini fisse, senza movimenti, ho scoperto che in alcuni punti non sarebbe stato facile tradurre la storia in un linguaggio cinematografico. Rimanevano dei nodi che non riuscivo a sciogliere.
Allora Pascal Caucheteux, il produttore di Why Not Productions, mi ha proposto di incontrare Pascale Ferran. Nel corso di vari mesi, ci siamo visti regolarmente e abbiamo discusso in modo approfondito del film nella sua totalità, poiché era impossibile modificare degli elementi isolati senza che questo incidesse su tutto il resto. Pascale mi ha aiutato a identificare le criticità e a rendere la narrazione più chiara ed incisiva. Inoltre, ama molto l’idea che nei film di animazione il montaggio sia bene ragionato prima della costruzione delle inquadrature e ha offerto numerosi e validi contributi alla fase del montaggio.
Uno dei temi è ancora una volta lo «struggimento», questa attesa dell’eroe davanti al mare… Ma anche quella che tu chi l’atemporalità, il «fuori dal tempo». È presente in tutti i tuoi film, lo percepiamo nelle sequenze sugli alberi, il cielo, le nuvole, gli uccelli che volteggiano…
Sì, sono momenti di grande purezza e semplicità, che ciascuno di noi conosce. Non esiste né il passato, né il futuro, non esiste più il tempo.
Ma il tempo è anche circolare. Le generazioni si susseguono. Il bambino compie gli stessi gesti del padre, supera gli stessi scogli, subisce gli stessi pericoli. Negli animali il ciclo è diverso: il pesce morto nutre le mosche che vengono mangiate dal ragno, il granchio viene portato via dall’uccello e via dicendo..
Esatto. Il film racconta la storia in modo lineare e circolare e utilizza il tempo per parlare dell’assenza di tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio. È un film che racconta anche che la morte è una realtà. L’essere umano tende a contrastare la morte, ad averne paura, a lottare per scagionarla e si tratta di un atteggiamento molto sano e naturale.
Eppure si può avere nello stesso momento una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno di opporci alla morte. Spero che il film trasmetta un po’ questo sentimento.
Un altro elemento essenziale è l’apparizione della tartaruga, il suo lato misterioso…
L’idea di creare una storia con una grande tartaruga è venuta abbastanza rapidamente. Avevamo bisogno di avere una creatura dell’oceano imponente e rispettata. La tartaruga marina è solitaria e pacifica e per lunghi periodi scompare nell’immensità dell’oceano. Dà la sensazione di essere vicina all’immortalità. Il suo colore rosso intenso le si addice e spicca sul piano visivo. Abbiamo ragionato a lungo sull’opportunità di mantenere un certo livello di mistero nella storia. Nei film dello Studio Ghibli, per esempio, la presenza dell’elemento misterioso è sfruttata molto bene secondo me. È evidente che il mistero può essere magnifico, ma non deve esserlo al punto da sganciare lo spettatore dalla storia. È importante generarlo in modo sottile… E senza utilizzare le parole, dal momento che il film è privo di dialoghi. È molto semplice spiegare una cosa con una battuta, ma ovviamente esistono altri mezzi. Penso in particolare ai comportamenti dei personaggi, alla musica e al montaggio. E, in assenza di dialoghi, il suono della respirazione dei personaggi diventa naturalmente più espressivo.
Parliamo della parte tecnica. Se ho ben capito, hai scoperto il digitale alla Prima Linea Productions.
E’ cosi’. Prima Linea e’ lo studio , a Parigi e Angouleme, dove la troupe principale e io abbiamo realizzato il film. Durante i primi test di animazione, un altra equipe ultimava il film Loulou, l’incroyable secret utilizzando il Cintiq, una penna grafica digitale che permette di disegnare su una tavoletta che è uno schermo di computer. Con questo strumento è possibile vedere subito il risultato dell’animazione senza dover fare la scansione di ciascun disegno separatamente. È più economico e consente un più ampio margine di creatività e un maggiore controllo sui ritocchi. Abbiamo animato due versioni di una stessa inquadratura,
una con matita su carta e una con questa penna digitale. Il tratto della penna grafica era più bello e ci ha convinti.
Per gli ambienti, il procedimento è stato diverso. I disegni sono stati creati su carta a carboncino, in modo molto spontaneo, con grandi gesti e strofinamenti con il palmo della mano. Questo aspetto artigianale era importante e dava una bella trama granulosa all’immagine. La zattera e le tartarughe sono state animate in digitale separatamente.
Sarebbe stato un inferno animarle in 2D. E, dal momento che tutto è finalizzato con lo stesso stile grafico, non si vede che si tratta di digitale. Durante la produzione, non mi sono dedicato all’animazione o alle scenografie, ho solo fatto dei piccoli ritocchi.
Come è stata concepita la musica?
È molto importante perché non ci sono dialoghi. Non avevo un’idea precisa orientata verso uno stile musicale specifico. Laurent Perez del Mar ha fatto numerose proposte, di cui una con una melodia molto bella che era perfetta come tema musicale principale e ne sono stato felice. In brevissimo tempo, ha proposto dei brani musicali in momenti in cui io non avrei pensato di metterli ma aveva ragione lui. Sì, molto spesso mi ha sorpreso.
Come si sono svolti gli incontri con Isao Takahata?
In realtà ci sono stati tre produttori fin dall’inizio: Isao Takahata e Toshio Suzuki, i due produttori dello Studio Ghibli, e Vincent Maraval di Wild Bunch.
Ci siamo incontrati più volte allo Studio Ghibli e poi i due giapponesi sono venuti in Francia. Nel corso delle conversazioni i miei scambi erano soprattutto con Takahata. A volte parlavamo dei dettagli, come per esempio i costumi dei personaggi, ma più che altro ci confrontavamo sulla storia, sui simboli e sugli aspetti filosofici, quello che il film vuole realmente raccontare. In alcune circostanze sentivo le nostre divergenze culturali. Per farvi un esempio, in un momento preciso della storia c’è un falò e per lui il fuoco avevo un valore simbolico un po’ diverso da quello che gli attribuisco io. In generale eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, fortunatamente, e trovavo le nostre conversazioni sottili e appassionanti. È stato molto partecipe e ha il credito ufficiale come «produttore artistico».
Quanto tempo c’è voluto per la realizzazione?
Nel 2007 ho iniziato a scrivere la sceneggiatura e a disegnare l’animatic, fase che ha richiesto parecchio tempo perché mi sono reso conto che la storia non scorreva. Per molti anni ho lavorato incessantemente, a volte solo, a volte con dei collaboratori, ma sentivo che il lavoro richiedeva tanto tempo. E per questo devo ringraziare i miei produttori: mi hanno sempre rassicurato e non si sono stupiti che ci volesse tanto tempo, precisando che la fase più costosa sarebbe arrivata dopo e che era meglio avviare la produzione a partire da una storia veramente solida.
Altri produttori avrebbero deciso di risolvere la storia durante la fase dell’animazione per non perdere troppo tempo. Capisco questa scelta, ma con me sarebbe stata troppo azzardata. La produzione è iniziata nel luglio 2013, a Prima Linea, ad Angouleme. L’intero aspetto artistico e stato assicurato dallo Studio Ghibli, da Why Not e da Prima Linea dove ho potuto contare su un eccellente capo animatore, Jean Christophe Lie, il regista di “Le avventure di Zarafa”. Aveva anche una vera sensibilità da cineasta ed è stato una delle colonne del film.