E’ il regista del film che abbiamo visto questo mercoledi’ nell’uscita infrasettimanale di Amicinema e cosi’ questa settimana abbiamo parlato, con spezzoni di film, notizie e bravi di interviste di Abdellatif Kechiche e questo e’ un comodo articolo riassuntivo se vi siete persi qualche puntata !!
Nato a Tunisi il 7 Dicembre 1960 Kechiche si trasferisce come immigrato a Nizza con la famiglia quando era solo un bambino.
Dopo una formazione teatrale, Kechiche si accosta al cinema in veste di attore e nell’arco di pochi anni diventa un volto riconoscibile del cosiddetto cinema “beur”, termine con cui si definiscono i nord-africani di seconda generazione.
Nel 2000 il suo esordio alla regia con “Tutta colpa di Voltaire (La Faute à Voltaire)” parla di una storia di immigrazione e non poteva ovviamente essere differente.
A Tunisi Jallel, 27 anni, cerca di sbarcare il lunario vendendo robaccia a poco prezzo ai malcapitati passanti. Una mattina incontra Mahmoud, appena espulso dalla Germania, che gli propone di emigrare in Francia. A Parigi fa la conoscenza con i clandestini e gli esclusi mentre i suoi sogni di fortuna si infrangono.
Nel 2003 arriva il suo secondo film, ovvero “La schivata“, grande successo ai Cesar francesi con le vittorie come miglior film e miglior regista.
Nella periferia di Parigi, Lydia, dopo aver contrattato a lungo, ha finalmente il suo bel vestito. Sfila in mezzo ai palazzi, passa davanti agli appartamenti delle sue amiche, vestita da principessa del Settecento. In un mondo di scarpe da ginnastica e di tute sportive, si potrebbe pensare che la gente la prenda in giro, ma tutti sono d’accordo nel riconoscerne la bellezza. Lydia è stata scelta per recitare nello spettacolo di fine anno, e prova senza sosta il testo del Gioco del caso e dell’amore di Marivaux. Quando Abdelkrim, per tutti Krimo, passa accanto a Lydia nel suo bel vestito, s’innamora a prima vista, un vero colpo di fulmine.
Ecco le parole di Kechiche:
“Come poter cambiare lo sguardo è il tema di tutti i miei film. Siamo continuamente sollecitati dai giornali, dalla tv e dai politici a dirigere lo sguardo in un certo modo, per questo è necessario interrogarsi a fondo sul proprio sguardo. E’ una battaglia continua e non ho una risposta.”
“Cous cous (La Graine et le Mulet)” nel 2007 e’ il film che rende famoso il regista tunisino nel panorama cinematografico.
La traduzione del titolo originale è “Il grano (di semola) e il cefalo”, ovvero i due ingredienti principali del cuscus (couscous in francese) di pesce, pietanza che ha un ruolo fondamentale nel film.
Beiji, 60 anni, lavora alla riparazione delle imbarcazioni nel porto di Sète, vicino a Marsiglia. Poco disposto alla flessibilità che la nuova organizzazione impone, viene licenziato. Beiji è divorziato e ha una nuova compagna ma non ha perso i contatti con la famiglia. Ora l’uomo vuole realizzare un sogno: ristrutturare una vecchia imbarcazione e trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte il cous cous al pesce. Nonostante le difficoltà economiche Beiji trova l’aiuto di tutti i familiari e l’impresa pare destinata al successo.
Il film fu presentato a Venezia dove vinse solo il Leone d’argento – Gran premio della giuria con grande delusione (e polemica) dello stesso Kechiche.
Che su questo film disse:
“Nessuno può farcela senza l’aiuto degli altri. Questo è l’allarme che volevo lanciare con il mio film, mostrando un personaggio a cui è stato negato un posto nella società, nonostante i suoi sforzi.
Desideravo mostrare la vita al di sopra dell’artificio cinematografico, un milieu sociale e un ambiente che io conosco bene, e rendere omaggio ai cosiddetti immigrati di prima generazione, come mio padre, degli eroi che hanno avuto un immenso coraggio nel lasciare il proprio Paese d’origine e subire umiliazioni con la sola speranza che i figli potessero avere una vita migliore
Per far emergere la vita così com’è ho chiesto loro di mangiare veramente il cous cous. E’ l’espressione dell’identità, un elemento che unisce, che realizza un momento di unità, al di là dei conflitti”.
E questa e’ la famosa scena finale che rivelo’ anche il talento della bravissima Hafsia Herzi.
Nel 2010 esce “Venere nera (Vénus noire)” forse il film meno apprezzato del regista tunisino e nel 2013 la carriera di Kechiche raggiunge il suo apice (attuale) con la vittoria della Palma d’Oro al Festival di Cannes con “La vita di Adele“, film ugualmente amato e criticato per le sue sensualissime scene d’amore che per molti sconfinano nella morbosità e nel voyeurismo (oltre che per le polemiche delle due attrici principali contro i metodi forti di direzione del regista tunisino).
Adele è adolescente non ha dubbi: le ragazze stanno coi ragazzi. La sua visione del mondo però inizia a vacillare il giorno in cui incontra Emma, una giovane donna dai capelli blu, che le farà scoprire il desiderio e le permetterà di realizzarsi come donna e come adulta. Sotto lo sguardo di chi la circonda, Adele cresce, cerca se stessa, si perde, si trova di nuovo…
Sentiamo Kechiche sul film:
“Mi sono concentrato sulla bellezza, un po’ come un fotografo o un pittore. Vovevo captare espressioni sottili, piccoli movimenti. Così era importante la luce per cogliere la naturale bellezza dei corpi e la coreografia dell’atto d’amore. Ma sicuramente sono scene molto emozionanti, che ci facevano vibrare sul set.
E’ stato altrettanto difficile filmare la sensualità nelle scene dei pasti. Abbiamo lavorato tanto e parlato tanto, ma alla fine le discussioni non ci portavano a nulla, la realtà è più intuitiva degli intellettualismi.
Non volevo fare un film militante sull’omosessualità, ho trattato questa coppia come una coppia qualsiasi. Del resto quando ho deciso di raccontare questa storia, le polemiche sui matrimoni gay erano di là da venire. Però se viene considerato anche da questo punto di vista la cosa non mi disturba.
La differenza sociale e’ uno dei temi che ricorrono nei miei film forse perché vengo anch’io, come Adèle, da una famiglia operaia. La differenza di classe tra Emma e Adèle, che è anche differenza di aspirazioni, è il fattore determinante nella loro rottura. Mentre la loro omosessualità alla fine sarebbe tollerata e capita dalla famiglia e dall’ambiente. “
Finiamo con l’ultimo film di Kechiche “Mektoub My Love – Canto uno” e sentiamo le recenti parole di Kechiche su questa sua ultima fatica:
“Mi piacerebbe restituire al cinema la sua dimensione sacra, e vorrei che andassimo a vedere un film con lo stesso spirito con cui partecipiamo ad una cerimonia. Anche se in molti pensano che sia un’illusione, ho sempre mantenuto la convinzione che il cinema partecipi ad una nuova era, possibile, dell’umanità. Mi sento tanto un regista quanto un artigiano di questa speranza. Se perdessi questa mia visione utopistica, perderei insieme ad essa il desiderio di fare cinema.
Aspiro a fare in libertà dei film che siano anch’essi liberi, realizzati con pochi mezzi, e con l’intento di raccontare una storia, di partecipare al risveglio dell’anima (anche se il mio spirito non è più sveglio di altri). Sono cosciente che la mia anima è oscurata da questo nuovo secolo. Senza essere un politico, le circostanze della mia nascita, le mie origini, la mia carriera, fanno di me un’entità politica.
Dentro di me, i miei pensieri, i miei sentimenti, sono diventati politici perché la società mi ha politicizzato. Ho girato questo film perché, pur non essendo biografico, riflette qualcosa di me. Non volevo parlare di me, non volevo spiegarmi. Tutti abbiamo avuto delle esperienze amorose in gioventù. Non ho la personalità dei miei protagonisti ma posso identificarmi in ognuno di loro.
Li guardo, li osservo, li amo, tutto qui. Li analizzo senza giudicarli.
Questo film induce ad una riflessione sul significato della parola “destino”. Siamo predestinati? Siamo governati da forze più gradi di noi? Qual è l’impatto della storia, delle decisioni di alcuni, sulla vita di noi tutti? Esiste davvero il libero arbitrio ?
Il film si pone la questione di comprendere se gli eventi a livello individuale abbiano ripercussioni su una famiglia o, più ampiamente, su una nazione. E, viceversa, se le decisioni prese a livello governativo abbiano un impatto sui gruppi e sugli individui.
Questo film vuole essere un inno alla vita e alla luce, un’ode alla bellezza, una storia gioiosa ed euforica che analizzi le conseguenze di azioni passate sul presente. Questa luce è la libertà di pensiero, la libertà che rivendico.”