Potete ancora trovare al cinema Beltrade il lungometraggio “Enclave” del serbo Goran Radovanovic: racconto della vita di una enclave serba in un villaggio albanese del Kosovo post-bellico. Storia di un matrimonio e un funerale in due comunità divise dall’odio e del rapporto tra due bimbi, Nenad e Bashkim, come specchio del conflitto e unico luogo in cui può nascere il cambiamento.
Il film, vincitore di Bergamo Film Meeting 2016 e presentato dalla Serbia all’ultima edizione degli Oscar, esce nelle sale italiane distribuito da Lab 80 film.
Protagonista è Nenad, un bambino serbo che vive a Vrelo, villaggio albanese nel Kosovo post-bellico. Il piccolo abita in una frazione isolata con il padre e il nonno, gravemente malato, a cui il bambino è molto affezionato. Ogni mattina va a scuola viaggiando in un blindato delle Nazioni Unite, che lo protegge dalle possibili aggressioni, e nella sua aula segue le lezioni da solo con la maestra. Tutti gli altri bambini del villaggio sono albanesi e uno di loro, Bashkim, è carico d’odio nei confronti di tutti i serbi, che ritiene responsabili della morte del padre. Un giorno, mentre la comunità albanese celebra un matrimonio, il nonno di Nenad muore e il bambino arriva ad attraversare le linee nemiche pur di riuscire ad avvisare il prete. Mentre sulle strade del villaggio matrimonio e funerale si incrociano come due universi paralleli incapaci di dialogo, Nenad si trova improvvisamente faccia a faccia con Bashkim: nelle mani dei due bambini la possibilità di riprodurre odio e divisione oppure di dare un piccolo, nuovo corso alla storia.
Francesco Rizzo ha visto per Amicinema questa pellicola e ci racconta le sue impressioni:
“Un bambino si scopre serbo quando vive in mezzo ai bambini kosovari albanesi e kosovaro albanese quando vive in mezzo ai bambini serbi. Cos’è una enclave, allora? Un recinto politico, etnico, religioso, culturale o mentale? Gli steccati del pregiudizio si possono scavalcare? La domanda se la pone Goran Radovanovic, classe 1967, nato a Belgrado, studi in Germania, in questo film teso fra due poli opposti, un matrimonio e un funerale: ma dimenticatevi i rutilanti, travolgenti carrozzoni di Kusturica o il filo rosso dei sentimenti che attraversa lo (splendido) “Sole alto” di Dalibor Matanic. Siamo nel Kosovo, è il 2004, cinque anni dopo la guerra che in quella regione della ex-Jugoslavia ha scavato un fossato tra serbi cristiani ortodossi e albanesi musulmani: una zona che, di recente, è diventata – c’è un’inchiesta del New York Times in merito – il principale centro di reclutamento dell’Isis in Europa. Anche se una campana per convocare i fedeli è oggetto centrale nel film, il cuore della storia è tuttavia più profondo del contrasto tra le fedi (anzi, i ministri della fede sono appiedati): il piccolo Nenad, costretto ad andare a scuola su un blindato per evitare le aggressioni degli albanesi, vive con il padre, frustrato e incapace di piegarsi a una riconciliazione che passa solo dalle divise. Negli stessi giorni in cui viene abbandonato pure dall’insegnante, nel suo villaggio fra colline verdi e strade sterrate, due membri dell’altra comunità stanno per sposarsi. La concomitanza fra le nozze e il funerale del nonno di Nenad, avvicineranno però il ragazzino al piccolo Bashkim, albanese allattato a odio per i serbi.
In una partita a nascondino che, sullo schermo, riproduce le dinamiche della guerra, Bashkim finirà per dover decidere della vita dell’amico/nemico, vittima di una sparatoria fortemente simbolica: l’odio restituisce odio. E così, un film sulla paura per il diverso (nella fede, nelle abitudini), diventa la storia di una scelta morale, anche se la parabola si chiuderà con l’amara constatazione che quella paura si possa cancellare solo con il tempo. Forse. Nell’attesa, si vive in un mondo in cui le bare vengono trasportate dai soldati del peacekeeping, i colpi di fucile per festeggiare gli sposi sembrano annunciare agguati, si spostano defunti sul letto di morte per scovare armi clandestine e si gioca a calcio rincorrendo i blindati. In una delle scene più visivamente efficaci della pellicola, Nenad riceve dal padre una croce di legno grezzo e una cinta per tener su pantaloni troppo larghi (il fiume, non i bambini albanesi, ha rubato i suoi), la stessa con la quale lo aveva punito: lo stacco di montaggio avvicina i volti dei due personaggi e Nenad, in piedi su una panca, è più alto del padre, mentre ripete cosa dovrà fare. Da quel momento, sarà lui, il piccolo, il protagonista di una storia di redenzione, di avvicinamento fra mondi opposti, mentre il padre (disarmato, della cinta e delle pistole) resterà chiuso nella sua identità. Per fortuna, i bambini ci guardano.”
«Con questo film ho voluto indagare il nodo centrale della disputa serbo-albanese – ha detto il regista, Goran Radovanovic -, che quindici anni fa ha portato a guerra, crimini e distruzione. Io intendo far nascere questa domanda: è possibile la coesistenza di queste comunità, in una realtà segnata dalla presenza di enclave, isole abitate da minoranze cristiane circondate da un mare di maggioranza musulmana? La mia risposta è di una chiarezza cristallina: l’odio, basato sulla paura del diverso, permane ancora fra le due comunità. La paura è l’assenza di amore. Per questo l’eroe di questa storia è un ragazzo di dieci anni che osa fare qualcosa di inimmaginabile per cristiani e musulmani del Kosovo: cercare un amico nell’altra comunità. Ho voluto fare un film pacifista, basato su una storia di perdono e amore».
Se vi abbiamo incuriosito ecco il trailer italiano !!