Il mio incontro con John Sayles è stato amore a prima vista. Perchè Sayles appartiene a quella generazione di “fratelli maggiori” che per noi ragazzi degli anni settanta erano l’esempio virtuoso da emulare, quelli che davvero avevavo fatto il ’68.
Difficile decidere da dove cominciare a parlare di lui. Forse dai numeri, perchè sono davvero sorprendenti. John Sayles è autore di tre romanzi (Pride of the Bimbos, Union Dues, Los gusanos), due dozzine di racconti; due drammi teatrali, tre videoclip per Bruce Springsteen (Born in the USA, I’m on Fire, Glory Days), quattordici film diretti, scritti, montati (tranne 3) e girati in perfetta autonomia, un cortometraggio di 25 minuti, Mountain View, codiretto con Marta Renzi nel 1989, oltre 20 sceneggiature scritte per altri registi (tra i quali Joe Dante,Lamont Johnson, John Frankenheimer, Bill Forsyth), la revisione (accreditata o meno) di quasi trenta lungometraggi di Hollywood tra i quali Apollo 13 di Ron Howard del 1995 e Mimic di Guillermo del Toro (del 1997).
Grazie al lavoro di scrittore e di sceneggiatore all’ombra di Hollywood, Sayles è riuscito, a volte aspettando anni per raccogliere tutti i fondi necessari, a fare “i film che vuole e come li vuole”, secondo le parole che traducono il suo personale concetto di indipendenza.
Il video di “I’m on fire” girato per Bruce Sprinsteen è un buon esempio delle caratteristiche del John Sayles narratore di personaggi che fanno parte dell’America proletaria e middle class, affascinanti e vitali “persone qualunque”. La stessa America appunto raccontata dalle canzoni di Bruce Springsteen.
John Sayles è il tipico cineasta USA impegnato e politicamente radical. Il suo primo lungometraggio “The return of the Secaucus 7″ del 1979 (mai distribuito in Italia) parla di politica: è la storia di sette amici arrestati a Secaucus, New Jersey, mentre andavano a Washington a una manifestazione contro la guerra in Vietnam. Dieci anni dopo si ritrovano per passare assieme un weekend in New Hampshire, ricordare la comune militanza politica e fare un bilancio di cosa sono diventati, loro giovani attivisti ormai trentenni.
Se vi sembra l’ennesima istanza del “Grande Freddo” avete ragione. Solo che John Sayles è arrivato prima degli altri: è il Grande Freddo a seguire “The return of the Secaucus 7″, non viceversa. Hollywood pensò bene che valeva la pena emulare un film che negli Stati Uniti ottenne un buon successo di pubbblico, a fronte di un budget complessivo per la sua realizzazione di appena 60 mila dollari.
Oggi il mondo conosce il Grande Freddo e non il film di Sayles. Ed è un peccato, perchè mentre gli ex radical rappresentati da Hollywood sono diventati cinici e disillusi, quelli di Sayles no. Come osserva Davide Ferrario in un bell’articolo sul cinema americano indipendente, in Europa il rigore e la coerenza di Sayles gli sono costati una minore popolarità rispetto a registi più trendy quali Jim Jarmush, mentre invece Sayles è molto amato e rispettato in patria. Ferrario lo definisce uno dei pochi umanisti prodotti dalla scena USA in questi anni. Il video che segue, purtroppo in inglese, è una buona dimostrazione delle atmosfere del film di Sayles.
Questa scena evidenzia anche un altro tema portante dei film di Sayles, quello della cultura condivisa di una comunità. Dice Sayles: “Ogni personaggio dei miei film ragiona in termini di appartenenza a una comunità ed è condizionato o radicato nella sua cultura e nei suoi valori, con quanto in essi c’è di positivo e di negativo. Credo che questa sia la vera questione centrale della società americana”
E in effetti nel “Return of the Secaucus 7″ c’è un personaggio che dice: “E’ bello avere intorno persone cui non devi spiegare le battute”. Credo che noi Amici del Cinema capiamo molto bene il senso di questa affermazione!
Oltre che scrittore e regista prolifico, Sayles è anche incredibilmente eclettico. Oltre ai film “d’autore” seguiti al primo, come Lianna del 1983, Promesse, promesse (Baby it’s you) sempre del 1983, Amori e amicizie (Passion fish) del 1992, Limbo del 1999, Sunshine State del 2002 e Casa del Los Babys del 2003, John Sayles ha affrontato anche film cosidetti di genere, storici, western, fantascienza e fantastico.
Tra tutti, vorrei parlare del Segreto dell’Isola di Roan del 1995, che vedremo con Amici del Cinema, e che appartiene appunto al genere fantastico.
“Penso che il pubblico si incuriosisca a un film di genere soltanto quando esci dal seminato. Se ne rispetti i codici, diventi come uno show televisivo, familiare, confortante e noioso. Nel segreto dell’Isola di Roan c’è un tocco di realismo magico. Ho pensato che l’unico modo per distinguere il mio realismo magico dal fantastico tradizionale è che i poteri del fantastico, nei miei film, non garantiscono affatto il trionfo.” racconta lo stesso Sayles a proposito del film.
E ancora “La sfida è stata quella di girare un film che potesse funzionare sia con gli adulti che con i bambini, che potesse emozionare senza essere sdolcinato, che potesse essere allo stesso tempo fantastico e realistico”.
C’è una forte scelta stilistica nel film: Sayles sceglie di raccontare la storia secondo i canoni della tradizione orale. Il ritmo della storia è quindi quello di una persona che racconta una fiaba.
Ne viene fuori un film poetico, magico, che funziona sia per gli adulti che per i bambini, perchè come dice lo stesso Sayles “E’ semplicemente una buona storia. E a una buona storia molti di noi trovano ancora difficile girare le spalle”.
Vi lascio con il trailer di questo bellissimo film, purtroppo anche questo in inglese, sperando di avervi per lo meno incuriosito.
Trailer de Il segreto dell’Isola di Roan