Visto che questa sera il protagonista dell’uscita infrasettimanale degli Amicinema sarà il film “Giovani ribelli – Kill Your Darlings” vogliamo parlarvi di come il movimento della beat generation è stato rappresentato sul grande schermo. Vi proponiamo questo interessante articolo pubblicato sul sito Effetto Notte e che trovate nella sua versione integrale (noi l’abbiamo leggermente ridotto) a questo link.
“La beat generation è stato, probabilmente, l’ultimo movimento giovanile ingenuo. Ingenuo nel senso di innocente, naïf, nel senso di “capace ancora di immaginarsi una via, un futuro, una strategia di vita senza dover fare i conti, fin dal primo concepimento di questa strategia, con il fatto che di certo non funzionerà, e se funzionerà, come accade con le rivoluzioni, verrà divorato e si ridurrà alla parodia di se stesso nel giro di un paio di stagioni”.
Fra l’altro, è uno dei pochi casi in cui la stessa definizione di “movimento” ha un senso: una specie di ondata sociologica, dove un’idea, un concetto per la verità anche abbastanza aleatorio e sfuggente, si impadronì con naturalezza di una larga fetta di una generazione. Di conseguenza, non è nemmeno stato un movimento artistico in senso proprio, un gruppo di uomini di cultura determinati a prendere una precisa direzione, a rinnovare codici, a suggerir poetiche.
Era più che altro gente che aveva semplicemente una (aleatoria, sfuggente, affascinante) idea di vita. Scrivevano canzoni e racconti perché in qualche modo bisognava pur comunicare, ma più come un mezzo che come un fine, e i codici si rinnovavano da soli, ché per comunicare quella idea sfuggente e nuova serviva una sintassi nuova.
Tutte queste cose, il fatto di avere rappresentato una novità assoluta che avrebbe costituito di lì in poi il modello su cui dare forma a tutti i possibili immaginari postadolescenziali, e dall’altra parte l’ultima espressione di un sistema culturale relativamente semplice, naturale, innocente, fanno della beat generation una realtà irripetibile e probabilmente irrecuperabile.
On the Road, il film girato più di mezzo secolo dopo il romanzo che della beat generation è una sorta di manifesto, non è un brutto lavoro. È ben girato, competente sul piano paesaggistico e atmosferico, che per un film, appunto, on the road, è fondamentale. Gli attori fanno del loro meglio e se la cavano professionalmente. Però è una specie di fossile. Non c’è epica, perché lo spettatore di oggi, nel vedere quelle azioni di sessant’anni fa, non può percepirle come epiche se non con grande sforzo.
Non comunica, e non potrebbe comunicare, il senso impellente di libertà che comunicava ai lettori dell’epoca e che, in parte, il romanzo ancora oggi trasmette. O meglio, cerca di comunicarlo ma senza trasformarlo in immagine, lasciandolo in parola, con un didascalismo tanto più deleterio in quanto le frasi un tempo potenti del libro, pronunciate oggi danno una paradossale e sgradevole sensazione di giovanilismo.
Ci si ritrova a guardare dei ragazzi pieni di sogni che dicono cose senza senso. Ed è proprio questo il punto: effettivamente il romanzo era un romanzo di giovani pieni di sogni che pensavano e dicevano cose senza senso, come la libertà e la gioventù e la meravigliosa follia della gioventù.
E On the Road finisce con l’essere un film su delle persone che, viste ora, fanno perfino un po’ di tenerezza. Non è colpa del film, è colpa nostra: non ci è più concessa l’ingenuità, e siamo quasi portati a riderne.
Uno dei problemi nel mettere in scena la beat generation (e le sue opere) è che non sta ferma. Non nel senso che il movimento in sé sia ancora vivo – è morto e sepolto -, ma piuttosto perché si è travasato sistematicamente in tutti i movimenti successivi, finendo coll’essere, tramite una serie di rimodellamenti e snaturazioni, il paradigma principale di qualsiasi movimento artistico-esistenziale giovanile possibile nella nostra società (sarebbe esistito il grunge negli anni Novanta senza il beat? E il cinema indipendente americano dello stesso decennio?).
Rimodellamenti e snaturazioni nel senso che, da una parte, quel sistema epico-mitico-artistico, nelle sue derivazioni attuali, si è fortemente appesantito, è diventato più carico, e i suoi simboli e le sue provocazioni si sono fatte più esplicite: quelle che nell’America degli anni Cinquanta erano veri e propri atti terroristici (tipo farsi una canna o pronunciare la parola “sesso” ad alta voce o scrivere una poesia di argomento non canonizzato da almeno due secoli), ora sono roba da niente, per cui occorre rincarare la dose se si vuole ottenere un effetto simile.
Dall’altra, si è altrettanto fortemente annacquato, e per lo stesso motivo: perché semplicemente non esiste un gesto che sia altrettanto di rottura, altrettanto rivelatorio, altrettanto giusto come all’epoca era parlare di omosessualità.
Aldilà del tempo che è passato, la beat generation ha sempre avuto un rapporto bizzarro col cinema, ed è curioso come un movimento dalla portata culturale così devastante (ne siamo tutti, più o meno, figli) abbia così poche traduzioni dirette nel linguaggio più importante del Novecento.
Fin dall’inizio, quando lo stesso Kerouac pensò di rivoluzionare il mondo già vecchio del cinema scrivendo lui stesso la sceneggiatura di On the Road, in un progetto che poi non vide la mia luce. E ben pochi furono i tentativi degli esponenti storici del movimento di approcciarsi al mondo dell’audiovisivo (Pull my daisy, del 1959, Chappaqua, del 1966, entrambi deliranti e sconnessi, più jazzistici che narrativi).
Il fatto è che buona parte della scombiccherata produzione beat, così come della sua stessa estetica, è intraducibile per definizione. Così come l’idea stessa di vita degli autori era allo stesso tempo lampante (la libertà) e contorta (un assommarsi spesso contraddittorio di misticismo, ribellismo, romanticismo, pauperismo ed elitarismo), così il loro modo di comunicare per iscritto era contemporaneamente diretto, istintivo e tremendamente caotico.
È il suono che manda avanti le cose nella letteratura beat, ancora più del senso: il ritmo, la suggestione dell’alternarsi di tempi, accelerazioni, rallentamenti, allitterazioni. E se la letteratura può gestire questa attenzione contemporaneamente ossessiva e sregolata per l’aspetto più astratto del linguaggio senza cascare nello sperimentalismo più intransigente, il cinema fa molta più fatica. Così come il cinema ha un grosso problema con la soggettività, con la prima persona.
E visto che questa pasta di scrittura ondivaga e allucinata, insieme con l’assoluta soggettività individuale, costituisce gran parte del fascino di queste opere, è ovvio che il cinema, col beat, abbia relativamente poco a che fare.
E infatti un film su Howl esiste, ma è obbligato a fermarsi sulla soglia dell’opera: più che mostrare Allen Ginsberg che legge la sua opera non si poteva fare. Per cercare di avvicinarsi di più, Howl (il film) deve rinunciare alla macchina da presa e affidarsi all’animazione, perché opere del genere parlano di cose che non si possono filmare. E anche l’animazione, in questo caso, può ben poco.
Perfino David Cronenberg, cimentandosi con il compito impossibile di tradurre in immagini il Pasto nudo di Burroughs, ha dovuto svicolare doppiamente: da una parte linearizzando l’assoluta decomposizione linguistica del testo iniziale, trasformandolo, per quanto possibile, in una storia; dall’altra finendo col fare non tanto il film del Pasto nudo, quanto un film su Burroughs che scrive il Pasto nudo. Non mettere in scena l’opera in sé, ma l’opera nel suo farsi, allontanando lo sguardo dal testo e fissandolo sull’autore.
Al cinema, per poter rispecchiare quel piccolo maremoto che cambiò per sempre la cultura e la società moderna, rimangono due strade. La prima è il documentario: la beat generation fu, d’altra parte, più importante per la rivoluzione sociale scatenata dai suoi autori che per le opere in sé. Come accade per ogni movimento cosiddetto di rottura, la parte importante è la rottura in sé, e gli strumenti che si usano per attuarla (qui libri, racconti, poesie) passano in secondo piano, a prescindere dalla loro (spesso alta, in questo caso) qualità.
Ed è la strada che ha scelto, almeno in parte, Urlo, e che sceglieva anni prima, in maniera più esplicita, The Beat Generation – An American Dream, del 1987, che ricostruiva attraverso le voci dei protagonisti l’epopea del movimento: il beat è irraccontabile, si può al limite indagare, si può osservare nel suo farsi, senza arrischiarsi troppo all’interno delle sue opere.
La seconda strada è invece più obliqua e, in quanto obliqua, molto più adatta al mondo beat: fregarsene del beat stesso, delle sue espressioni più esplicite, del suo marchio, e rappresentarne lo spirito. Andare, insomma, nella stessa direzione, seguire l’onda istintiva di Kerouac, Ginsberg e compagnia, adottantone la mentalità, piuttosto che l’estetica. E qui la lista si allunga sensibilmente, a rivelare l’effettivo impatto dei giovani bruciati e insofferenti degli anni Cinquanta sull’intera società.
Easy Rider è a tutti gli effetti un film beat, e regge i suoi quarant’anni e passa con facilità (anche se la faccia sconvolta di Jack Nicholson alla vista della marijuana, vista oggi, è impagabile). È più o meno direttamente ispirata alla beat generation buona parte del cinema indipendente e underground americano: da John Cassavetes, che negli anni Sessanta, parallelamente con le opere letterarie degli autori beat, sviluppava una poetica cinematografica fatta di improvvisazione, lontana sia dal cinema classico che dalle avanguardie intellettuali dell’epoca, fino ad arrivare a Jim Jarmusch, che col suo stile nervoso, dimesso e divagante sembra il figlio dell’anima meno rivoluzionaria del movimento.
O ancora, per arrivare a oggi, il Sean Penn regista, che della beat generation riprende costantemente il ribellismo giovanile e nello stesso tempo la fascinazione del viaggio e della natura. Passando per Gus Van Sant (Drugstore Cowboys riprende il mondo beat anche nelle tematiche, che vanno dal vagabondaggio alla tossicodipendenza, mentre il resto dei suoi film indipendenti risente di una mentalità produttiva anarcoide, di un attitudine beat). Una vena sottile che permea il cinema non solo indipendente e non solo americano, resistente nello spirito per quanto diversa per tematiche e storie.
Uno spirito sgangherato, strafatto e innocente, che si è insidiato nella cultura americana e non accenna ad andarsene, essendo ormai diventato (nel bene e nel male) un tassello importante dello stesso mito americano e della nostra società.