Visto che l’uscita infrasettimanale degli Amicinema questa sera avrà come graditissimo film protagonista la nuova pellicola di Abdellatif Kechiche abbiamo pensato di proporvi questa interessante intervista al regista tunisino presa dal pressbook della Lucky Red, la casa distributrice.
Perchè ha scelto di adattare un fumetto, “Il blu è un colore caldo” di Julie Maroh, per realizzare il suo quinto film, “La vita di Adele” ?
Si tratta di un adattamento molto libero. E la molla che ha fatto scattare il desiderio, la voglia di girare La vita di Adele, E’ nata dall’unione di due elementi: la lettura del fumetto e un progetto a cui pensavo da molto tempo.
In effetti, fin dall’epoca de “La schivata” (2003), avevo in mente una sceneggiatura sul percorso di una professoressa di francese appassionata di teatro. Volevo sviluppare un personaggio femminile desideroso di comunicare, e che svolge il suo lavoro con passione. Allo stesso tempo questa insegnante è consapevole delle ripercussioni sul suo lavoro di tutto ciò che le accade nella vita privata: gli amori, i lutti, le separazioni.
Ero stato vicino a molti di questi professori e professoresse nel periodo de La Schivata. Per me era toccante il fatto che vivessero il loro lavoro come una vocazione. Erano dei veri artisti, amavano la lettura, la pittura, la scrittura…
Tutti ricordiamo momenti chiave della nostra vita scolastica, quando un professore appassionato ci ha portato a vedere un certo film, o ci ha spinto a leggere un certo libro, facendo forse nascere in noi delle vocazioni. Ma alla fine questa sceneggiatura non è mai stata scritta. E quando mi sono imbattuto per caso nel fumetto Il blu è un colore caldo, che racconta la storia di questo amore assoluto tra due donne, e allo stesso tempo parla di una giovane donna che diventa un’insegnante, ho capito come far combaciare i due progetti.
Effettivamente la vocazione è un tema molto forte in relazione alle protagoniste del suo film: vocazione per la pittura per una delle due, vocazione per l’insegnamento per l’altra.
Trovo estremamente legittime e degne di rispetto le vocazioni, soprattutto quando si tratta di vocazioni anonime, fatte di abnegazione, e che non hanno bisogno della riconoscenza degli altri.
Per questo ammiro molto quelle insegnanti, quelle professoresse interessate solo ai risultati dei loro allievi. Diventa parte della loro vita, è il loro modo di gratificarsi.
Il suo film è anche e soprattutto una storia d’amore, di un amore al femminile, tra due donne.
Raccontare una storia d’amore tra due donne significa lavorare intensamente con due attrici, E’ un lavoro che mi appassiona e che si sta rivelando sempre più importante mano a mano che cresco come regista. Mi chiedo cosa nella storia tratta dal fumetto Il blu è un colore caldo sia stato l’elemento ispiratore, quello che mi ha spinto a fare il film. Forse le tavole che ritraggono i corpi nudi?
E’ possibile. Non so quali siano state le ragioni più profonde.
A questo proposito, come ha scelto le sue protagoniste, Léa Seydoux e Adele Exarchopoulos?
Ho scelto del personaggio. Ma soprattutto la cosa determinante nel mio incontro con Léa, è stato il suo modo di rapportarsi alla società . E’ molto attenta al mondo che la circonda, possiede una vera coscienza sociale. C’è in lei un reale bisogno di impegnarsi per gli altri, che corrisponde molto al mio. Ho potuto rendermene conto davvero perchè ho trascorso un intero anno con lei, da quando è stata scelta per il ruolo fino alla fine delle riprese. Inoltre trovavo in Léa qualcosa che potremmo definire una certa «arabità», qualcosa dello spirito arabo. Mi ha poi detto di avere due fratellastri arabi, ma questo io non lo sapevo. Léa vive con grande consapevolezza, pienamente cosciente di tutto ciò che accade. Ed è anche il suo modo di affrontare la vita. Ha qualcosa a che fare col nomadismo, col vagabondaggio, qualcosa che attiene alla malinconia, quello che noi chiamiamo «mektoubà». Léa è fatta così, questo è il suo modo di stare al mondo.
E per quanto riguarda Adele Exarchopoulos?
Abbiamo fatto un casting interminabile, ma non appena ho visto Adele, l’ho scelta. L’avevo invitata a venire con me in un bar. Lei ha ordinato una torta al limone, e per il suo modo di mangiare mi sono detto: è «lei». Lei è «sensorialità», il suo modo di muovere la bocca, di masticare… La bocca è stata un elemento molto importante per questo film, la bocca delle due protagoniste è fondamentale per questo film, per delle ragioni comprensibilmente umane. Provocano infatti le sensazioni più diverse, ogni genere di impressione. Tutti noi siamo colpiti da qualcosa nel viso degli altri, il naso, la bocca. Per me si tratta del motore da cui tutto ha origine.
La solitudine causata dalle pene d’amore rende coraggiosi, anche questo sembra un tema del film.
Provo molta ammirazione per il personaggio di Adele, che è una donna libera, davvero coraggiosa, devota e forte. Adele è distrutta dal dolore ma non si tira mai indietro quando è in gioco il suo lavoro di insegnante. Si fa forza. Quando in qualcuno, chiunque esso sia, noto un coraggio come questo, beh, devo ammettere che mi turba. Io personalmente non mi sento coraggioso, ma mi aggrappo sempre a questa idea e la noto spesso nelle ragazze più giovani, questa forza, questa capacità di affermare se stesse. Mi ha fatto pensare, eroina orfana, ma determinata e coraggiosa, pronta ad affrontare le prove della vita. Trovo ci sia una parentela con il modo in cui ho immaginato Adele.
In questo film emerge anche una caratteristica tipica del suo modo di girare: un grosso lavoro per ottenere il massimo della spontaneità nella recitazione degli attori. Come riesce ad ottenere questo risultato?
E’ importante che ciò che appare nelle immagini sia naturale, nonostante sia inevitabile un lavoro di preparazione, ma bisogna che sia ridotto al minimo indispensabile. E‘ un modo di vedere fino a dove è possibile arrivare alla verità , tra virgolette, di un personaggio, e di sbarazzarsi di una recitazione sapiente, per quanto non ci si riesca mai completamente.
Questo aspetto emerge con forza ancora maggiore nelle scene di gruppo, in cui gli scambi di battute tra i diversi personaggi sembrano addirittura improvvisati. Quanto è lasciato all’improvvisazione?
Nelle sequenze di gruppo, il testo, i dialoghi, sono sempre scritti minuziosamente. Esistono, ma io cerco comunque, per quanto possibile, di non subire un ritmo predeterminato e, anche se ho la sensazione di non esserci ancora riuscito, continuo a provarci. Cerco di fare in modo che quel ritmo venga fuori al momento delle riprese, perchè non mi sento a mio agio con i ritmi dettati dalla sceneggiatura, nonostante ne rispetti la struttura. Quando sono sul set, ho bisogno di rinunciare a questo principio, al principio di dover rispettare la sceneggiatura ad ogni costo. Preferisco rivolgermi agli altri con dialoghi miei e aprirmi a qualcos’altro, senza restare bloccato su quello che è stato scritto. Così quando arriviamo a quelle scene, lasciamo aperte tutte le possibilità .Le prove vengono dimenticate e la scrittura continua durante le riprese. Sono scene che amo girare. Si ricreano in continuazione, costringono gli attori a reagire uno nei confronti dell’altro. Mi diverte.
Adesso che il film è finito, cosa le ha dato?
Non mi ha dato delle risposte, al contrario, ha accresciuto i miei interrogativi e i miei dubbi sul principio della femminilità che è anche il principio della vita, della speranza, del mistero. Ho idea che forse un giorno troverà una risposta.
E’ per questo che il titolo del film è “La vita di Adele” ?
Capitoli 1 e 2 perchè non so ancora quali siano gli altri. Vorrei che Adele mi raccontasse il seguito.
Adele è la sua Antoine Doinel (personaggio interpretato da Jean-Pierre Leaud presente in molti film di Francois Truffaut)?
Antoine Doinel, le confesso che ci avevo pensato.